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La memoria sonora del colonialismo italiano / Tamu Edizioni

La memoria sonora del colonialismo italiano

(Anti)colonialismo
Inni, stornelli, danze, jazz, marce, riviste teatrali. L’Etiopia è stata cantata in molti modi nella seconda metà degli anni Trenta, eppure di questo repertorio non è rimasta traccia, se non nelle celebrazioni nostalgiche e neofasciste. Ripensare il ruolo della musica e dei musicisti nel generare il coinvolgimento di un’intera nazione è tuttavia fondamentale per comprendere i meccanismi alla base di una rimozione collettiva e della persistenza di un immaginario coloniale e razzista.
Chissà il negus che cosa dirà?
Nel 1936 il giornalista francese Pierre Bonardi, autore di una cronaca dell’invasione etiopica «dall’adunata di Roma alla presa di Macallè», dedicò alcune pagine della sua celebrazione dell’impresa al cambiamento di gusto musicale che questo avvenimento comportò: «Le ariette sentimentali e le implorazioni singhiozzate sono finite», afferma Bonardi, «Non si deve più morire per un’ingrata, ma solo per la Patria. Non si vuole più conquistare un cuore più volte sfogliato, ma l’impero del Re dei Re. E come è maltrattato questo povero sovrano! Non si parla più che di Serenate a Selassiè, di Consigli al Negus, e di minacce alla sua barba negra».
Quello a cui l’autore fa riferimento è un repertorio di canti, incisioni, pubblicazioni a stampa e trasmissioni radiofoniche che avevano come tema l’Etiopia e che fiorirono all’alba della mobilitazione per svanire dalle cronache e dai cataloghi abbastanza presto, pochi mesi dopo l’entrata ad Addis Abeba di Badoglio. In questo breve arco di tempo, furono pubblicate e incise più di cento canzoni; di molte, poi, vennero presentate al pubblico diverse versioni, eseguite da famosi cantanti dell’epoca (Carlo Buti, Enzo Fusco, Crivel) o da orchestre di primo piano (come l’orchestra Cetra o quella di Dino Olivieri). «Canzoni di attualità» venivano definite allora, e le case discografiche facevano a gara ad accaparrarsi i nomi più significativi e i brani più coinvolgenti.
Ma di che tipo di musica si trattava? Alcuni studiosi come Alessandro Carrera sottolineano l’uso delle canzoni ai fini della propaganda, altri (Gianfranco Baldazzi) identificano questi brani con una tendenza del fascismo a pubblicare «inni e marcette». In effetti, alcuni di questi brani sono identificabili con la formula «canzoni marce» – una formula già usata nel 1912 per un altro brano di argomento coloniale, «Viva gli Ascari», di De Renzi/Zanga – e tali erano i brani di quel periodo che di solito vengono ricordati, e talvolta anche cantati, dai nostalgici di ogni ordine e grado: le marce erano «Faccetta nera» e «Ti saluto vado in Abissinia» e diverse altre il cui unico obiettivo era quello di glorificare le truppe italiane e nobilitare un’irragionevole e criminale occupazione militare.
Ma, in realtà, il repertorio di argomento etiopico degli anni Trenta era molto più vasto. Raccoglieva musiche da ballo, stornelli, brani di impianto teatrale – elaborati in riviste e poi rimodellati per la radio – canzoni per il cinema, brani per orchestra, e anche il jazz, tant’è che una formazione del tempo, Jazz Sinfonico Cannobbiana, registrò per la Columbia un «Pot-pourri di canzoni Africa Orientale», in cui alcuni dei brani più celebri di argomento coloniale venivano usati come base per nuovi arrangiamenti di impianto swing.
Cosa vuol dire questo? Dal punto di vista del musicologo che cerca di affrontare il tema del colonialismo attraverso la chiave della musica e del suono, vuol dire che non si può circoscrivere questo repertorio alla sola «Faccetta Nera» e all’uso che si è fatto di questa canzone nel secondo Novecento (e fino a oggi) ma bisogna scavare più a fondo, domandarsi che cosa ha voluto dire – per la musica italiana – il proliferare di questi temi e la loro restituzione con determinate scelte produttive. E poi vuol dire domandarsi come ha contribuito questo repertorio a definire l’immaginario razziale che si è venuto a costruire in Italia.
Il libro di Virgilio Savona e di Michele Straniero, Canti dell’Italia fascista, offre un’importante guida per muoversi all’interno di questo repertorio. I due autori – pur riportando solo una selezione di quei canti dedicati all’invasione dell’Etiopia – rintracciano brani di diversa provenienza. Ci sono le famigerate marcette, ma anche brani della tradizione dialettale costruiti intorno a quell’esperienza, così come i pezzi scritti da E.A. Mario, forse il più celebre compositore di canzoni del tempo, autore tra l’altro di «La Leggenda del Piave» e di «Tammurriata Nera». E.A. Mario pubblicò diversi pezzi in quei mesi, con precise finalità. Riletti oggi, i titoli scandiscono i tempi dell’avventura coloniale: in primo luogo si costruisce un nemico, al quale E.A. Mario dà un volto e un nome – con il suo successo del 1935, «Serenata a Selassiè» – poi si fortifica l’unità nazionale scagliandosi contro le sanzioni («Noi tireremo dritto»); dopodiché si dedica un pensiero al soldato lontano («Madonnina d’Oltremare») e infine si celebra la vittoria («Tarantella imperiale»).
Rispetto alla costruzione del discorso coloniale avvenuta attraverso altri media, il medium della canzone ha una sua peculiarità: la presenza ossessiva dell’imperatore Haile Selassiè, talvolta citato come Negus, talvolta come sig. Tafari. Consultando il catalogo dei canti del tempo si nota come molti di questi sono dedicati direttamente al dileggio del nemico. Il Negus viene chiamato in causa sottolineando la sua presunta inabilità a governare, viene accusato di accumulare schiavi; oppure si sottolineano – a scopo denigratorio – quei tratti utili a demarcare una diversità culturale («l’ombrello», la «gonna», la «barba») ma che, nel contesto di questi canti, dovrebbero denotare una presunta inciviltà. L’accanimento contro Selassiè rivela in realtà la necessità di esorcizzare il ricordo di un altro Negus, Menelik, e di sua moglie Taitù, protagonisti della sconfitta italiana ad Adua, che erano già entrati nelle canzoni popolari italiane a vari livelli. Attaccando il Ras Tafari si cercava dunque di cancellare lo spauracchio sopravvissuto in canzoni che ricordavano «Menelik, la rovina della gioventù», come intonava un canto popolare registrato negli anni in diversi luoghi, a Roma come a Cuneo.
Le diversità culturali non erano usate solo in funzione de-umanizzante ma anche per descrivere un mondo esotico, per orientalizzare la colonia. In un recente articolo, Felice Liperi ricorda alcuni di questi brani in occasione dei recenti conflitti nel Tigrai, dal momento che nelle pagine dei giornali del novembre 2020 tornavano i luoghi celebrati in canzoni come «Inno a Macallè» e «Le carovane del Tigrai».
In un celebre saggio dal titolo Love and Theft, Eric Lott legge il repertorio di canzoni razziste dell’Ottocento americano, le cosiddette coon songs, interpretate da performer bianchi in blackface, dimostrando come esse fossero allo stesso tempo l’insieme di un interesse perverso nei confronti della cultura nera americana e l’espressione di un atteggiamento di superiorità marcatamente razzista. Guardando questi brani nel loro insieme, è difficile non notare come il repertorio di argomento etiopico funzionasse – nella cultura popolare italiana – in modo decisamente simile: da un lato bisognava costruire un interesse per alimentare il coinvolgimento emotivo di un popolo nei confronti dell’avventura bellica e coloniale; dall’altro bisognava affermare e rappresentare una distanza, costruire una presunta superiorità. In questo le canzoni – supportate dalla radio e dalla vendita di dischi – si dimostrarono una risorsa preziosa.
Interesse perverso e costruzione di una presunta superiorità sono facilmente riscontrabili nei brani in cui ritroviamo le donne abissine: vengono rappresentate come bisognose di aiuto, schiave da liberare, oggetti da consumare. In tutti i casi, vengono infantilizzate. «Faccetta nera» in questo senso è (paradossalmente!) la meno aggressiva; in un brano come «Gambette nere» di Trinchieri la componente sessuale è molto più esplicita. Ancora più insopportabile è il testo de «Il bottone del legionario», una scenetta teatrale incisa dalla Odeon in cui la donna abissina, nuda, ripropone la stereotipata parlata africana per intavolare un dialogo con il soldato rappresentato come suo salvatore. Questi sono i brani più difficili da ascoltare oggi, anche per chi li affronta con il distacco dello studioso, ma faccio mie in questo le parole di Igiaba Scego:
«Attraverso una serrata analisi di Faccetta nera [nonché di tutto il repertorio che qui si presenta, aggiungerei] si potrebbe destrutturare il testo, decolonizzare le menti, defascistizzare la società, educare la nostra politica che ormai ha fatto dell’altro il capro espiatorio per eccellenza».
A questo link, si possono anche ascoltare molte di queste canzoni. È un catalogo messo insieme grazie all’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi, ex Discoteca di Stato, un luogo in cui, fra le altre cose, sono stati raccolti importanti documenti sonori di quegli anni. Si tratta, in altri termini, dell’archivio da cui bisogna partire per comprendere e «destrutturare» la memoria contenuta in questi testi e in questi suoni per comprendere appieno quanto di questa memoria sia rimasta nel modo in cui rappresentiamo – in parole e in musica – la figura dell’altro.
L’uso della musica per finalità di propaganda non era certo un aspetto esclusivo del contesto italiano. Negli Stati Uniti, per esempio, si sviluppò agli inizi della Seconda guerra mondiale un repertorio per certi versi simile a quello che viene qui descritto, ma orientato in chiave anti-giapponese.
Quello che il contesto internazionale ci mostra è che le decisioni in ambito musicale non venivano sempre prese dai funzionari di governo, quello che si poteva osservare era invece un equilibrio dinamico – talvolta conflittuale – fra le disposizioni imposte e le scelte dei produttori, dei direttori d’orchestra e dei musicisti. Valeria Deplano – studiando la propaganda all’interno delle riviste coloniali del tempo – ha illustrato come il governo preferisse puntare su un presunto diritto dell’Italia e sulla forza militare per giustificare l’invasione dell’Etiopia, e tuttavia molte delle riviste coloniali presentavano principalmente tematiche sociali che sottolineavano l’inferiorità di quei popoli, sostenendo un intervento armato finalizzato a migliorarne le condizioni. Scorrendo il catalogo dei canti si può osservare una simile frizione tra le marce e gli inni, dall’impianto più celebrativo e filogovernativo, e tutti quei brani che sviluppavano in modalità diverse i temi dell’eliminazione della schiavitù e della condizione femminile, e permettevano di presentare il soldato bianco italiano come l’uomo della provvidenza.
Si può forse evincere che il repertorio di argomento etiopico lasciasse un certo grado di libertà ad autori, esecutori e produttori? Difficile da dimostrare ma di certo non lo si può escludere. Quello che però qui conta è che molti di questi (autori, esecutori, produttori) continuarono la loro carriera dopo la fine del fascismo e della guerra, ottenendo grandi successi. Jacopo Tomatis suggerisce una chiave di lettura importante: piuttosto che guardare alla storia della canzone italiana prima e dopo la seconda guerra mondiale, bisognerebbe considerare la storia della musica nel trentennio 1928-1958. Questo cambiamento di prospettiva permette di vedere come diversi protagonisti si siano affermati nel contesto nazionale in concomitanza con la loro partecipazione al repertorio etiopico, per poi sfornare grandi successi e influenzare profondamente la canzone italiana. Si potrebbe pensare a Mario Ruccione, autore delle musiche di «Faccetta Nera» e vincitore di Sanremo nel 1955; a Nisa, il paroliere del Carosone di «Tu vuò fa’ l’americano» e «Torero» che anni prima aveva affinato la sua vena in brani come «Sotto le stelle del Tigrai» e «L’Italia ha vinto», o Pippo Barzizza, che aveva diretto l’orchestra Cetra in «Fiore del Tigrai» e «Casetta abissina» per poi diventare uno dei più apprezzati direttori d’orchestra della cosiddetta musica leggera.
Ricapitolando, abbiamo un repertorio di un gran numero di canzoni che spazia all’interno di diversi stili e diversi temi legati al tentativo italiano di colonizzare l’Etiopia, con una prospettiva che spesso sembra delineare un interesse verso l’altro – il nero, l’africano, la donna abissina – ma il cui fine è sottolineare una presunta inciviltà e stabilire una distanza. Grazie a questo repertorio si affermano poi compositori, musicisti e produttori che costruiranno la canzone italiana del dopoguerra. Tuttavia, questo repertorio – a parte una manciata di titoli rimasti nell’immaginario nostalgico e neofascista – è stato messo nel dimenticatoio. Quanto ha influito questo nella rimozione della memoria coloniale italiana? E quanto di questa rappresentazione razziale è rimasto nella coscienza italiana (anche) grazie alla memoria sonora? Son domande importanti a cui occorre provare a dare una risposta se si vuole comprendere il ruolo della musica nella costruzione di un immaginario coloniale.
Gianpaolo Chiriacò è ricercatore presso l’Università di Innsbruck. Muovendosi fra etnomusicologia e cultural studies, ha portato avanti una lunga ricerca sul campo a Chicago, (Voci Nere. Storia e antropologia del canto afroamericano, Mimesis 2018) e adesso indaga le relazioni fra Italia ed Etiopia nella popular music italiana. Nel resto del tempo si prende cura delle sue figlie.

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