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Salute queer, salute dal basso, salute per tuttз!

Intersezioni
Un’antropologia della salute in Italia

La pandemia ha reso ancora più visibile che l’approccio istituzionale al tema della salute è calato dall’alto. Una prospettiva queer che affronti i bisogni delle persone marginalizzate illumina invece il potere della partecipazione comunitaria. Attraverso la collaborazione collettiva è possibile affrontare le sfide della salute Lgbtqia+ in Italia con l’obiettivo di ripensare lo stesso significato della parola «salute» e integrare alla biomedicina l’azione dal basso.
Oltre la «minoranza»: queerificare la salute

Cosa vuol dire ripensare la salute in modo «queer»? È possibile rispondere a questa domanda partendo da qualcosa che ha colpito ognunз di noi: la pandemia. Ne parlano Martina Consoloni e Ivo Quaranta nel loro articolo pubblicato nel 2021 Lockdown dall’alto, comunità dal basso spiegando come le istituzioni non abbiano considerato le persone come risorse ma semplicemente come vettori, adottando soluzioni top-down (come i lockdown) incentrate sul solo contenimento della diffusione del virus e noncuranti rispetto ai bisogni e alle potenzialità delle soggettività sul territorio. Al contrario, gruppi informali Lgbtqia+ come il B-side Pride di Bologna si sono mossi in senso opposto. Ne è un esempio la raccolta fondi «Pane, Paillettes e connessione» per sostenere persone Lgbtqia+ in difficoltà. Il progetto si è posto un obiettivo principale: il riconoscimento «come essenziali anche [di] quei bisogni che, poiché immateriali, sono solitamente percepiti come meno urgenti». La partecipazione comunitaria, come osservato dallз autorз, ha permesso di rilevare e co-costruire i bisogni delle persone marginalizzate individuando soluzioni ad-hoc e tutelandone la salute. Come osservano Consoloni e Quaranta, «può essere riconosciuto un potenziale ‘salutogenico’ ai processi di auto e mutuo aiuto attivati a Bologna»proprio perché centrano lo sguardo sulla costruzione comunitaria dei bisogni superando l’iper-individualismo neoliberista e biomedico. La biomedicina, infatti, pur trovando i suoi punti di forza nell’elaborazione di medicine e strumenti preventivi fondamentali per la gestione di sintomatologie e contagio, pecca nel definire «salute» e «malattia» solo attraverso parametri biochimici. La messa in discussione di questa forma anti-collettiva di osservare l’umano e la salute non può che sposarsi con le istanze provenienti da gruppi e soggettività queer. Il concetto stesso di queer, come osserva Antonia Caruso, allontanandosi dall’istituzione di una «normalità» umana, incorpora la critica alle categorie bianche, binarie e cis-eteronormative che ingabbiano i corpi e le identità riducendone la complessità a ragioni di calcolo e profitto. Attraverso questa forma di pensiero è possibile capire come ragionamenti che scaturiscono esclusivamente da misurazioni economiche o biochimiche mancano di considerare di quanti elementi comunitari si componga la «salute».

L’esempio appena riportato ci spinge a riflettere su quanto la salute di comunità, partecipata e che valorizzi l’autodeterminazione sia auspicabile per promuovere il benessere di tuttз. Come già accennato, i movimenti transfemministi sono in testa nel sostenere questo tipo di salute a livello pratico e teorico. Come scrive Non Una di Meno nel documento La salute che vogliamo (2022): «Consideriamo la salute come benessere psichico, fisico, sessuale e sociale e come espressione della libertà di autodeterminazione. La salute non è dunque rappresentata dalla semplice assenza di malattia e infermità». È molto interessante osservare come questo pensiero si rispecchia in quello sostenuto dalla commissione Salute e Cultura di Lancet nel 2014. Pur proveniente dal mondo della ricerca medica, infatti, anche questo testo ci invita a osservare che «salute» non è un concetto universale. Nel complesso, il testo spiega come la salute ha a che fare con la propria cultura, con il sé, con la propria capacità di agire e autodeterminarsi. Riporta il fatto che la salute non può essere imposta e non è sufficiente misurare analiticamente l’assenza di malattia per fare salute. Traspare da entrambi i pensieri un concetto semplice ma non scontato: la salute è politica. Fare salute passa necessariamente per il coinvolgimento collettivo. Quando questo non avviene, infatti, le conseguenze sono destrutturanti a livello individuale e sociale e, indubbiamente, la pandemia ne è stato un esempio lampante. Ciò detto, per meglio comprendere come agire in tal senso, bisogna conoscere il contesto a cui si fa riferimento. L’Italia, infatti, come spiega Luca Trappolin, è un paese complesso dal punto di vista istituzionale ma florido per quanto riguarda l’attivismo radicale e trasformativo. È opportuno, quindi, fornirne un’analisi più dettagliata.
Tutte le illustrazioni di quest'articolo, compresa quella di copertina, sono state gentilmente concesse da Queer Mush (@transmush)
La salute Lgbtqia+ in Italia

Diversi studi, tra cui quelli citati, osservano come pandemia, cambiamento climatico e crisi economiche hanno reso evidente, anche in Europa, che non è più possibile affrontare i problemi sociali solo attraverso processi calati dall'alto. Consoloni e Quaranta hanno evidenziato come i lockdown, in specifico, mostrino come lo stesso concetto biomedico di salute, seppur efficace in alcune sue parti, risulti insufficiente. Si nota, quindi, che «salute» non può significare solo «assenza di malattia» quanto, piuttosto, «benessere». Il benessere è complesso, multiforme e, soprattutto, si costruisce in base ai bisogni individuali e collettivi. Come muoversi, quindi, verso una salute che integri alla biochimica la partecipazione comunitaria? Come osservato, in quanto gruppo particolarmente colpito dalle disuguaglianze in ambito sanitario, le soggettività queer portano istanze ed esempi interessanti per formulare nuove pratiche di promozione della salute. In questo senso, la promozione dei diritti Lgbtqia+ si lega a doppia mandata alla promozione della salute per tuttз. È proprio dai movimenti queer, antirazzisti e antiabilisti, infatti, che fiorisce l’idea di ripensare i corpi, la comunità e l’autodeterminazione. È a partire da queste premesse che, tra il 2021 e il 2022, ho sviluppato una ricerca collaborando con diversi gruppi queer italiani e intervistando attivistз e personale sanitario locale. Prima di presentarne dei risultati sintetici, è importante, però, fornire una serie di dati relativi al nostro paese e alle problematiche vissute specificatamente dalla popolazione Lgbtqia+.

L’Italia è un paese contraddittorio. Le statistiche pubblicate da Eurispes nel 2022 mostrano che il 67,1% dellз italianз è a favore della tutela giuridica delle coppie di fatto e che la metà approva anche l’adozione per coppie omoparentali, eppure le leggi in tal senso sono scarsissime. Nell’ultimo biennio, infatti, l’Italia è crollata dal 23° al 30° posto nelle classifiche sull’accettazione sociale delle persone Lgbtqia+. La marginalizzazione delle persone queer non ne limita soltanto l’esercizio dei pieni diritti di cittadinз, ne impatta anche lo stato di salute. Relativamente alla popolazione queer nei contesti sanitari, si riscontrano criticità rispetto a stereotipi (promiscuità, inaffidabilità…) associati alle diverse identità che ne condizionano il trattamento sanitario; una permanenza dell’idea di «malattia» in associazione soprattutto a orientamenti sessuali come l’asessualitá e alla non conformitá di genere; l’invisibilizzazione di orientamenti e identità come la bisessualità e il non binarismo e, infine, la generale insufficienza dell’approccio biomedico binario. Questo, caratterizzato riconoscendo come normali solo due sessi, due generi, dell’eterosessualità e della cis-generità, spinge spesso a trattamenti sanitari inadeguati e discriminatori. Ne sono un esempio operazioni chirurgiche di «normalizzazione» per le persone intersex in età neonatale o infantile (quindi senza il loro consenso) e per quelle transgender anche quando non desidererebbero sottoporvisi. Ci si rende conto, quindi, che sono necessarie delle formazioni su un approccio adeguato che esca dalla cis-eteronormatività, quell’assunto sociale e culturale secondo cui l’eterosessualità è la norma unica per la sessualità e l’affettività e l’identità cisgender (conforme al genere assegnato alla nascita) è la norma unica per il genere. Per moltз professionistз sanitariз intervistatз nel corso della ricerca di campo, infatti, le questioni queer vengono viste come interessanti ma comparabili alle malattie rare: non c’è tempo di aggiornarsi su tutto. L’errore qui è duplice: non solo sarebbe adeguato poter affrontare anche le malattie rare in modo non solo didascalico, ma le istanze della popolazione Lgbtqia+ non riguardano affatto un numero esiguo di persone. In paesi in cui esiste una maggior tutela dei diritti umani, almeno in gruppi privilegiati, fino al 25% dellз giovani si identificano come queer ma non solo: le critiche in questione riguardano tutta la popolazione e il rapporto con i corpi, la salute e l’identità. L’impostazione aziendale neoliberista dell’ospedale, focalizzandosi sulla produzione quantitativa più che sulla valorizzazione qualitativa del rapporto tra personale sanitario e pazienti, obera lз professionistз sanitariз spingendolз fino al burn-out e rendendo le pratiche di cura eccessivamente meccaniche. La pandemia, come se non bastasse, ha peggiorato questo stato di cose. Dall’avvento del Covid-19, infatti, gli ospedali pubblici e lз lavoratorз della salute si sono trovatз in una condizione di sovraccarico maggiore. Allo stesso tempo, il contatto è stato rimosso dai contesti sanitari al fine di prevenire il contagio, rimuovendo, quindi, anche la possibile azione lenitiva della presenza di amicз e parenti nel corso delle visite e delle attese. Questo, purtroppo, rafforza le storture della biomedicina e del neoliberismo. Ciò visto, è comprensibile, e dimostrato dai testi di riferimento, come non sia sufficiente aspettarsi che delle soluzioni istituzionali, come linee guida e norme rivolte solo alle persone queer, risolvano i problemi osservati. Pur essendo basi fondamentali, infatti, esse tendono a non tradursi mai in pratiche adeguatamente informate e applicabili nel quotidiano. Soddisfare i bisogni sanitari della popolazione richiede una revisione più ampia della salute che parta dal basso, dalle comunità, che riguardi il superamento di macro categorie astratte volgendosi verso una valorizzazione delle pratiche e delle esperienze quotidiane.
Comunità, partecipazione e autodeterminazione in pratica

Addentriamoci però ora nelle pratiche. Non avrebbe senso, infatti, costruire un invito alla partecipazione, alla comunità e all’azione e terminarlo nella ridondanza teorica. È preferibile raccontare delle suggestioni. È utile mostrare che esistono già degli spazi in cui la cura si pratica oltre ai confini delle categorie culturali e dare qualche spunto per il quotidiano di ognunə, auspicando che ogni persona aggiunga le proprie esperienze e considerazioni a questa conoscenza collettiva e sempre in movimento. È stato osservato brevemente il caso di «Pane, Paillettes e connessione» a Bologna, un caso virtuoso di organizzazione collettiva per «fare salute». Purtroppo, non è possibile costruire una guida step by step per lavorare in questo senso. Nel corso del mio campo di ricerca, tuttavia, è emerso un bisogno di esempi, di speranza, di orientamenti replicabili. Soprattutto, si è evidenziato il bisogno, per promuovere una salute queer, di costruire reti nazionali e transnazionali. Unire l’esperienza di persone provenienti da diversi contesti è potente nel favorire l’immaginazione e l’innovazione. Per questa ragione, una considerevole parte della ricerca si é svolta nel corso del progetto di scambio giovanile europeo Queer Health promosso dall’associazione olandese Treat It Queer in collaborazione con i gruppi trentini Te@ e Fuori Orario Femminista. Il campo, focalizzato sulla condivisione di conoscenze ed esperienze sulla salute Lgbtqia+ tra giovani ricercatorз e professionistз queer, si è svolto in una settimana tra i monti della Val di Sella, in Trentino. Pur con limiti e facilitazioni, come, ad esempio, il fatto di costruirsi attorno a una comunità di sole quaranta persone già sensibilizzate sul tema della salute e dei diritti queer, lo scambio è andato oltre alla sola condivisione di saperi. Esso, infatti, si è trasformato in un autentico esempio di promozione della salute per tuttз lз partecipanti. Questo enorme risultato è stato possibile grazie a un insieme di pratiche di tutela e di relazione. Ne è un esempio l’intera prima giornata dedicata soltanto alla costruzione collettiva di norme di comportamento volte alla tutela dei bisogni di tuttз. Dal rispettare i pronomi, all’evitare di accendere e spegnere le luci rapidamente per non rischiare di provocare reazioni a persone con malattie croniche o neurodivergenti, ogni scelta è stata consapevole, esplicita e dialogata. Lungi dallo spauracchio del politically correct che, nella mente di molte persone, giudica e mette alla gogna per ogni minuzia, questo esercizio ha coinvolto ogni persona nel benessere delle altre. Ha evidenziato l’importanza della gentilezza contro la violenza delle azioni e del linguaggio comuni. Ha evidenziato come anche questa è cura.

Nel percorso elaborato, «cura» ha assunto numerosi significati. Cura è ascolto, confronto, definizione collettiva dei significati. Proprio su questo si è concentrato anche il workshop che ho proposto durante la seconda giornata del Queer Camp. Esso rappresenta un esercizio facilmente riproducibile al fine di concretizzare le teorie esposte e di stimolare azioni e pensieri futuri. Intitolato Illness and production of meaning: anthropology in biomedicine, questo laboratorio può essere un ottimo punto di partenza su cui lavorare, individualmente e collettivamente, per interrogarsi sul proprio modo di vedere la salute ed esprimere bisogni che faticosamente immaginabili e vocalizzabili. Utilizzando un metodo, ispirato all’associazione Arte Migrante, che prevede l’uso dell’arte (intesa come libera espressione attraverso strumenti o meno) come mezzo di comunicazione, si chiede allз partecipanti di rispondere alla domanda: «Cosa significa ‘salute’ per te?» attraverso una serie di strumenti artistici precedentemente forniti. Si prevede, inoltre, una successiva condivisione volontaria in cerchio. Questo esperimento, apparentemente banale, è cruciale nell’evidenziare come più di una persona, anche con storie di malattia o ospedalizzazione alle spalle, non abbia mai avuto occasione di chiedersi: «Cosa significa ‘salute’ per te». Invitare alla decostruzione di un concetto comunemente inteso e assimilato permette, inoltre, l’emergere di emozioni impreviste. La percezione della possibilità di avere voce in capitolo nel definire i propri bisogni, il proprio modo di intendere la salute, potendo espandersi oltre i confini del linguaggio verbale e mettendo in condivisione i propri pensieri, permette di permeare le barriere culturali e sviluppare una forza trasformatrice fondamentale per poter ripensare il sistema sociale. La salute queer, quindi, non può avvenire se non attraverso un percorso di consapevolezza e rinnovato interesse per il confronto e l’espansione delle possibilità umane. Questo percorso, però, può cominciare in modo più semplice di quanto appaia nel contesto sociale e normativo italiano. Può partire anche da piccoli gruppi che si pongono grandi domande.
Letture consigliate

Caruso Antonia
2020 LGBTQI+, in A Buon Diritto ONLUS, Rapporto sullo stato dei diritti in Italia, Capitolo 11
2022 LGBTQIA+: Mantenere la complessità, Eris Edizioni, Torino

Consoloni Martina e Quaranta Ivo
2021 Lockdown dall’alto, comunità dal basso: ripensare la cura in tempo di pandemia, «Civiltà e Religioni», 7, pp. 123–136

European Union Agency for Fundamental Rights
2020 A long way for LGBTI equality, Luxembourg, Publications Office of the European Union

Napier David et al.
2014 Culture and Health, «The Lancet», 384, 9945, p. 1607–1639

Non Una di Meno Torino
2022 La salute che vogliamo: inchiesta a cura di Non Una di Meno Torino sulla salute delle donne e soggettività LGBTQIA+, manifesto

Pieri Mara
2020 Chroniqueers. Time, care and visibility in narratives from queer people with a chronic illness, Thesis in Human Rights in Contemporary Societies
Rosa Maria Currò si è laureatə in Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università di Bologna con una tesi sulla promozione della salute della popolazione Lgbtqia+ in Italia. Si attiva sul territorio in progetti relativi al contrasto alle discriminazioni e alla costruzione di comunità soprattutto attraverso il lavoro nella collettiva Transferelli (@trans_ferelli).