Come in Parasite, anche in Okja il regista coreano Bong Joon-ho mostra le grandi contraddizioni del capitalismo contemporaneo, stavolta narrando le strategie di una grande corporation, guidata da due sorelle "mostruose" (entrambe interpretate da Tilda Swinton), e dimostrando come le politiche di greenwashing e di messa a valore della vita e della biosfera si sostengono le une con le altre.
Ovviamente, le grandi analisi critiche di ispirazione marxista e non hanno sempre, in modo diverso, offerto spunti complessi e articolati in grado di evitare fuorvianti riduzionismi. All’interno di queste, un contributo eretico rimane quello sviluppato da Gilles Deleuze e Felix Guattari. In Millepiani, il duo filosofico, separandosi da una tradizione critica marxista ‘classica’, elabora una teoria sociale basata sulle linee di fuga. Non sono tanto le contraddizioni generali e molari (il conflitto capitale-lavoro, su tutte) a determinare le funzioni di un particolare sistema, quanto invece i modi, le strategie, la complessità degli strumenti prodotti in un determinato contesto dallo stesso per controllare le proprie molteplici fratture, a descriverne le caratteristiche. Ogni sistema di potere è una composizione immanente, in continua trasformazione, e si riproduce attraverso la perenne costruzione di soggettività complesse e di movimenti che ne garantiscono la perpetuazione. Se per Marx il capitalismo aveva, quindi, bisogno di violare continuamente i propri limiti al fine di garantirsi nuove possibilità espansive, per Deleuze e Guattari, più specificamente, assistiamo ad un continuo alternarsi di tensioni parallele, ovvero movimenti di deterritorializzazione e riterritorializzazione. La prima espressione si riferisce ad un moto trasformativo e di rimodulazione, una decostruzione degli apparati istituzionali funzionale a riadattare gli stessi a situazioni e problematiche contestualmente differenti. Con la crisi del modello keynesiano-fordista durante gli anni ’70, ad esempio, osserviamo la cosiddetta de-regolamentazione dei flussi finanziari e la progressiva trasformazione dell’economia della produzione in una governance del debito/credito. L’assoluta pervasività e la natura transnazionale del capitale in movimento, però, non deve lasciare pensare ad una natura fluida, puramente liscia e liquida della macchina capitalista. A questo movimento deterritorializzante, infatti, si associa un’altra tensione: quella di ricostruire un confine, colonizzare, riterritorializzare il flusso per fargli prendere la forma tangibile della proprietà privata, se non addirittura quella di produrre continui paradisi fiscali tali da trasformare il profitto in rendita. Stato poliziesco e annullamento del welfare, da un lato, e mito imprenditoriale ed edonismo dei consumi, dall’altro, si tengono macabramente insieme nella dittatura di Pinochet (la cui pesante eredità ancora oggi incide sul Cile e il mondo) e in altri contesti fornendo un modello perfetto di dispotismo neoliberale. Nuovi campi di concentramento, continue pulsioni e lotte identitarie si integrano in questo modo ad un panorama produttivo in cui paradossalmente vediamo piattaforme (Amazon, Google, Facebook, ecc.) estrarre valore dall’interazione e dallo scambio su reti globali.
Una simile dinamica è quella che si configura in Okja (2017, prodotto da Netflix) di Bong Joon-ho, film antecedente all’acclamato e pluripremiato Parasite. La narrazione ci presenta due sorelle a capo della grande corporation alimentare Mirando (con ovvio riferimento alla famigerata Monsanto), Lucy e Nancy (entrambe interpretate da Tilda Swinton).

L’operazione di Lucy mette insieme quella che definiremmo come un’operazione di greenwashing con il tentativo di spingere gli asset e la sfera produttiva della propria corporation oltre l’alimentare in senso stretto. La vita e la biosfera diventano il core-business della Mirando: la deterritorializzazione dell’industria alimentare all’interno della crisi ecologica, o il suo postumano ricodificarsi (direbbero Rosi Braidotti e Donna Haraway), implica la creazione e messa a valore della vita in sè stessa e, ovviamente, la sua conseguente espropriazione sotto forma di merce. La crisi in questo processo di ristrutturazione aziendale è rappresentata dall’inarrestabile lotta di Mija (giovane contadina coreana a cui è stato affidato l’allevamento di Okja) contro il destino tragico a cui sarebbe destinata la sua compagna. Con l’aiuto di un gruppo di eco-sabotatrici/tori del Fronte per la Liberazione degli Animali le due saranno infine riunite, svelando anche le crudeli macchinazioni dietro il progetto di Lucy. Durante il succedersi degli eventi, però, un’ombra incombe sull’operato di Lucy: quella della feroce sorella Nancy (precedente CEO della corporation); dispotica, crudele, totalmente disinteressata a qualsiasi discorso relativo all’impatto ambientale e alla sostenibilità. Ed è a lei che infine ritorna lo scettro del comando, una volta svelata al pubblico la natura ‘artificiale’ della nuova specie prodotta dalla Mirando, e a cui viene affidato il compito di controllare la macellazione e distribuzione dei supermaiali.
A primo avviso sembrerebbe che il film giochi con un facile dualismo attraverso l’opposizione delle due sorelle, costituenti due facce della stessa medaglia. Tuttavia, la codipendenza di Lucy e Nancy e il loro facile alternarsi dimostra qualcosa di più intricato di un semplice gioco fra opposti. Se a Lucy è spettato il compito di trasformare la compagnia in tempo di crisi, di costruire una nuova immagine, un nuovo business, e persino una nuova specie, sta a Nancy, invece, quello di capitalizzare questa trasformazione, di riportarla sotto forma visibile di produzione e valorizzazione. Infatti, dal doppio movimento delle due sorelle emerge la vera linea di fuga, il paradosso inconciliabile all’interno del film, ovvero avere creato a tutti gli effetti una nuova forma di vita, la quale non può essere concepita in altri termini da una corporation che in quanto risorsa, merce da portare a valore. È per questo motivo che la campagna pubblicitaria e i tentativi di greenwashing nulla possono nel contrapporsi alla lotta per la liberazione di Okja da parte Mija, e al loro genuino rapporto d’amicizia (una costruzione socializzata e condivisa della vita intraspecie), e vedono invece necessaria la riterritorializzazione dispotica di Nancy (accompagnata da una forte repressione delle proteste ecologiste) come strategia per controllare la trasformazione dell’azienda. Se Parasite costituisce un potentissimo documento sulle dinamiche di classe nella società contemporanea, Okja, quindi, ci aiuta a pensare al capitalismo come ad un sistema complesso, contraddittorio, articolato attraverso molteplici agenti e strutture, evitando facili dualismi e opposizioni (come quella fra globalismo e nazionalismo, capitalismo sostenibile ed estrattivo); e ci ricorda, come nella metafora di Walter Benjamin al centro di un altro film del regista coreano (Snowpiercer, 2013), che se il moto del capitalismo è quello di un treno in perenne movimento, per superarlo non basta cambiare guida o tentare di fargli mutare direzione, bisogna farlo deragliare.
Francesco Sticchi, PhD in Film Studies, lavora come Lecturer alla Oxford Brookes University, è attivista dell’associazione ecologista Terra Phoenix, e si occupa del rapporto fra cinema e filosofia combinando teoria della mente incarnata e pensiero spinozista.