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Fare intersezionalità in letteratura

Intersezioni
Le Ada che abitano il romanzo di Sharon Dodua Otoo sono tante, donne, poi colonizzate, oppresse, subalterne. Per rivelare l’atavica mancanza di spazio che le accomuna, attraverso i secoli, l’autrice narra le loro vicende situandosi sul margine e, talvolta, attraverso oggetti di poco conto. Tra le pieghe della storia si creano spazi di mediazione tra l’esterno e l’interno, tra gli stereotipi e i desideri. Una stanza per Ada sfida la norma e ci obbliga a ribaltare il nostro punto di vista per comprenderlo appieno.
Ada è una madre addolorata per la morte del suo bambino ancora in fasce nel 1459 a Totope, in Ghana; è una nobildonna dell’Inghilterra vittoriana la cui mente geniale non le basterà a sottrarsi a una relazione opprimente; è una delle detenute nel campo di concentramento di Mittelbau-Dora nel 1945 ed è costretta a prostituirsi per le guardie naziste; è una ragazza inglese, nera, incinta alla ricerca di una casa nella Berlino contemporanea. Testimoni della sua storia un braccialetto, che viaggia attraverso i secoli di Ada in Ada e poi mura, battiporta, scope che ci restituiscono di volta in volta le vicende. Le vicissitudini di ciascuna Ada, infatti, vivono nei margini, tra le pieghe di una storia che ha altri protagonisti, ben più ingombranti, e che sembrano essere condannate a ripetersi ogni volta secondo le stesse dinamiche. Tuttavia, Una stanza per Ada è tutt’altro che un romanzo di resa, che presenta la realtà incontrovertibile di alcune oppressioni. Al contrario, è un racconto narrato dalla parte perdente, che, con grande consapevolezza di sé e del posto a lei riservato, da un lato disvela i meccanismi di oppressione in tutta la loro banale brutalità, dall’altro rende visibili le strategie di resistenza e interroga direttamente la società contemporanea europea.

Si tratta del primo romanzo di Sharon Dodua Otoo, scrittrice, giornalista e attivista, pubblicato in Germania da S. Fischer Verlage nel 2021 e tradotto in Italia l’anno seguente da NN Editore. Otoo è nata e cresciuta in Gran Bretagna da una famiglia ghanese e, dopo il trasferimento in Germania, ha scelto il tedesco come lingua letteraria. Fin dagli esordi, sceglie di adattare il linguaggio alla narrazione, plasmandolo sul punto di vista marginale e deformandolo per meglio adattarlo agli eventi raccontati. Sceglie di inserirsi nel solco della letteratura nera tedesca, iniziata da May Ayim negli anni Ottanta, che su ispirazione di Audre Lorde fu la prima a parlare di identità afro-tedesca, e porta avanti la tradizione di una scrittura impegnata, dove cerca di mettere in luce la storia di un’intera comunità. La lingua di Otoo è «hackerata»: parole troppo ‘«maschili» vengono re-inventate per essere neutralizzate e lungo il testo si trovano spesso neologismi e anglicismi che sfidano la presunta fissità della lingua tedesca. Inoltre, ciò che colpisce della sua scrittura è la volontà di raccontare ogni storia da una prospettiva laterale, affidando spesso la narrazione a oggetti di poco conto, ai quali nessuna delle persone coinvolte nelle vicende avrebbe mai pensato di dare importanza. Tale strategia serve a rendere evidente non solo l’atavica mancanza di spazio per prendere parola, ma soprattutto a ri-raccontare eventi dati per scontati nella concezione comune. Il romanzo, infatti, si conclude con una parte dedicata ad Ada nella Germania di oggi, che porta sulla sua pelle i segni di tutte le Ada di cui si legge in precedenza, dei quali evidentemente non si è ancora liberata. Siamo di fronte a un romanzo che sfugge alle categorie esistenti: è scritto da un’autrice migrante, con un linguaggio volutamente ibrido, da un punto di vista ben situato e mette al centro la necessità, ancora reale per alcune persone, di conquistare il proprio spazio all’interno della società. È dal testo stesso, nonché dalla bibliografia dell’autrice, che emerge il bisogno di un metodo di lettura critica alternativo, in grado di cogliere tutti gli elementi disseminati nel romanzo e porlo in diretto collegamento con il contesto all’interno del quale viene concepito.
Per meglio comprendere quale sia il quadro nel quale il romanzo va a collocarsi, vale la pena di citare un episodio accaduto pochi anni fa. Il 14 marzo del 2018 al Ministero dell’Interno tedesco, fino a quel momento denominato Bundesministerium des Innern (Ministero federale dell’interno) è stato accorpato il Dipartimento per i lavori pubblici ed è stato contestualmente rinominato Bundesministerium des Innern, für Bau und Heimat, ovvero «Ministero dell’Interno, dei lavori pubblici e della patria». Il termine heimat che compare all’interno della denominazione ufficiale è una sorpresa. Si tratta infatti di un concetto di difficile traduzione che si riferisce alla «patria» non come luogo specifico ma piuttosto come somma di ideali e tradizioni verso cui protendere. Tale patria ideale si presenta come piuttosto omogenea, permeata di valori cristiani, che determinano in maniera alquanto netta anche i ruoli di genere. Nel corso dei secoli, la nozione di heimat è stata semplificata e utilizzata come vero e proprio terreno di scontro tra partiti, che se ne sono serviti per perpetrare politiche populiste. Basta pensare che proprio la heimat sta alla base dell’ideologia nazista che giustificò il genocidio della popolazione ebraica. La reintroduzione del termine all’interno della denominazione ufficiale del ministero dell’Interno ha suscitato una reazione decisa da parte di un nutrito gruppo di intellettuali che vivono e scrivono in Germania e in tedesco, ma che appartengono a comunità migranti diversissime tra loro, suggellata dalla pubblicazione nel 2019 di Eure Heimat ist unser Albtraum, ovvero La vostra patria è il nostro incubo. Il saggio, curato da Fatma Aydemir e Hengameh Yaghoobifarah, è composto da dodici voci che prendono la parola sottolineando diversi aspetti di marginalizzazione vissuti in Germania, tra le quali figura la stessa Otoo. Come si legge nell’introduzione, l’intento non è solo quello di sottolineare le oppressioni vissute da specifiche categorie di cittadine e cittadini ma piuttosto quello di interrogare direttamente la società tedesca tutta. Al centro della discussione non ci sono solo questioni legate all’essere nere in Germania, ma anche all’identità di genere, all’orientamento sessuale e, in definitiva, a quello che viene definito etero-cis-patriarcato, all’interno del quale solo una piccolissima parte delle identità è visibile.

Nello specifico, nel capitolo intitolato Liebe («Amore»), Otoo si occupa di razzismo e scava all’interno della tradizione tedesca, citando, ad esempio, la raccolta di filastrocche Struwwelpeter (tradotta in italiano con il titolo Pierino Porcospino), dove bambini bianchi diventano neri perché, per punizione, vengono immersi in un liquido scuro. L’esempio serve per introdurre un discorso più ampio sui quotidiani episodi di razzismo vissuti in prima persona da lei in Inghilterra prima, e da suo figlio Tyrell nella Germania di oggi, poi. Il nodo principale a cui Otoo arriva è che la comunità nella quale vive ha costruito nel tempo e continua a costruire la bianchezza come unica norma: il problema della costruzione sociale della razza è un problema tutt’altro che risolto.

Il concetto di intersezionalità appare particolarmente aderente al testo, dal momento che quelle presentate sono oppressioni multiple e intersecate tra loro e, applicare tale concetto alla lettura critica, potrebbe aiutare a mettere in comunicazione tutti gli elementi tra loro. Vale la pena ricordare che il concetto di intersezionalità nasce in ambito giuridico e, anche in quell’ambito, servì a colmare un vuoto: secondo Kimberlé Crenshaw, infatti, essere una donna nera poneva delle questioni diverse da quelle che si riscontravano nel caso delle donne bianche o degli uomini neri e c’era pertanto la necessità di strumenti nuovi per affrontarle. Le tre categorie principali sulle quali si fonda il concetto di intersezionalità sono quelle di classe, razza e genere, alle quali ovviamente vanno aggiunte di volta in volta tutti gli altri costrutti che provocano discriminazione.

Nel romanzo di Otoo il tempo e lo spazio non sono elementi preponderanti: iniziamo in Ghana nel 1400, ci spostiamo nell’Inghilterra vittoriana, nella Germania nazista e nella Berlino contemporanea a grandi salti, eppure leggiamo sempre la stessa storia. Donne silenziate, oppresse, sminuite, rese invisibili attraversano tutte le epoche e nessuna sfugge a quello che sembra essere un destino già scritto. Otoo immagina di legarle tutte con un braccialetto, che viene nominato da ciascuna delle protagoniste; gli oggetti hanno un valore tutt’altro che simbolico all’interno della narrazione. La scrittrice, infatti, immagina delle epoche segnate da diverse reincarnazioni, che un dio beffardo si diverte ad assegnare a delle povere anime in pena. Così, mentre sperano di diventare donne e uomini, queste anime diventano talvolta scope, poi battiporta, passaporti bagnati dalla pioggia, oggetti futili e di poca importanza. Tuttavia, è proprio dal loro punto di vista che viene narrata la vicenda: mentre da un lato non hanno gli strumenti per agire, e non mancano di sentirsi in colpa per questo, dall’altro vengono investiti del ruolo principale, ovvero quello di testimoni privilegiati perché molto vicini e responsabili della diffusione di ciò che hanno visto. Infatti, per quanto insignificanti, gli oggetti scelti di volta in volta sono ovunque, a volte ben visibili, altre volte nascosti nelle borse, ma sempre attenti e pronti a registrare gli eventi. Si tratta sicuramente di uno degli elementi più caratteristici della narrazione di Otoo che in un’ottica intersezionale potrebbero avere una doppia valenza; se da un lato, infatti, sottolineano la mancanza totale di spazio nella storia per le voci femminili, sono contemporaneamente anche i simboli di una resistenza silenziosa, della volontà di non piegarsi ma di far emergere la propria condizione a qualsiasi costo, come si legge nel seguente passaggio, narrato dall’anima che continua a reincarnarsi in oggetti diversi attraverso i secoli:
Nel marzo del 1945, come stanza di un campo di concentramento, non ho potuto impedire nulla ma ho visto tutto. La verità di Ada era impressa nelle mie pareti. E anche tutti gli altri presenti avevano visto. Registrazioni, diari, oggetti vari, interi musei e memoriali: in seguito tutto questo passò a far parte dello spazio tedesco. E io contribuii. Nel giugno del 2019 c’erano solo Ada e Cash. La parola di lei e quella di lui. Io giacevo in una borsa, soltanto un paio di fogli appiccicati fra loro, in procinto di perdere significato. Questa volta non potei nemmeno vedere. Ma posso comunque testimoniare. E questo è forse il più grande gesto d’amore…
Dal romanzo gli elementi di classe, razza e genere emergono chiaramente come chiave per interpretare le sopraffazioni vissute dalle protagoniste, che in un caso portano anche alla morte. La storia dell’Ada contemporanea è significativamente raccontata dal suo passaporto, l’oggetto più fragile e più prezioso a sua disposizione, in quanto migrante e, allo stesso tempo, oggetto totalmente inutile se si tratta di trovare una casa in cui vivere. Ada è povera, nera, incinta e non sposata: questa particolare condizione la espone non solo a giudizi continui, ma a veri e propri episodi di razzismo che le impediscono di trovare una sistemazione accettabile. Ada non ha accesso a tutta la città, ma solo ai quartieri che la sorella seleziona per lei e in cui si trascina, affaticata e infreddolita, nella speranza che sia finalmente la volta buona. Lo spazio a lei riservato è delimitato dalla sua identità migrante, fissa e precostituita, ed è pertanto invalicabile, perché né la sua volontà né la sua voce trovano mai l’opportunità di venire fuori.

In Ghana, Ada è punita prima perché rimane incinta di un uomo bianco, uno dei conquistatori e poi perché partorisce un bambino malato. Poco importa che sia costretta ad assistere al funerale della creatura appena nata, poco importano i suoi sentimenti, Ada si sottrae al ruolo pensato per lei e deve pagare per questo.

L’Ada dell’Inghilterra vittoriana, ad esempio, oltre a non essere riconosciuta dai suoi contemporanei come la prima informatica, inventrice del calcolatore che diventerà poi il nostro computer, viene anche punita con la morte da suo marito, accecato dalla gelosia per l’altro uomo di cui lei si è innamorata. Neanche l’uomo per cui morirà è in grado di comprenderla, né prende sul serio le sue necessità, come esplicita lei stessa nella seguente riflessione:
Guardai Charles negli occhi. […] Volevo dirgli che ogni tanto sognavo di liberarmi. Che sognavo di essere in un posto completamente diverso, dove avrei potuto realizzarmi. Una stanza tutta per me. Perché ogni giorno mi era più chiaro che William aveva preso assolutamente sul serio la promessa «finché morte non ci separi» con tutte le sue conseguenze. Ma Charles non mi avrebbe sentita. Non mi avrebbe nemmeno vista. Chiuse gli occhi.
Da questo passaggio si evince in maniera chiara anche il riferimento al romanzo di Virginia Woolf, già in parte chiaro dal titolo del romanzo. Le identità presentate non sono affatto aderenti alle storie che convenzionalmente le raccontano, come già messo in luce dalla stessa Virginia Woolf e molte altre dopo di lei ed esiste, pertanto, la necessità di una narrazione diversa in cui le nostre Ada possano realmente identificarsi e trovare spazio.

Il panorama letterario tedesco contemporaneo presenta numerose affinità con altri contesti europei, tra cui senz’altro anche quello italiano. Sia all’interno della produzione letteraria tedesca che di quella italiana esistono oggi romanzi e opere letterarie in generale prodotte da esponenti delle comunità migranti, non necessariamente provenienti dai territori oggetto di conquista coloniale. La ricezione di tali opere è cambiata nel tempo, ma la costante è che esse vengono sempre considerate alla luce della loro dualità, ovvero dell’essere portatrici di più culture diverse, e si tende a coglierne gli elementi che le contraddistinguono come «straniere», come ad esempio la commistione linguistica o i riferimenti ad altre culture. Poche volte, invece, si sottolinea la loro valenza storica, le contro-narrazioni e le sfide poste alle società all’interno delle quali vengono concepite. Eppure, si registra una tendenza, tanto in ambito italiano quanto in ambito tedesco, soprattutto da parte delle scrittrici donne, a produrre romanzi che si pongono direttamente in dialogo con la società da una prospettiva molto ben caratterizzata dal punto di vista del genere, della razza e della classe sociale.

Esiste in Italia oggi una vasta produzione di romanzi che raccontano il razzismo, le periferie, il sessismo, l’abilismo e così via, prodotti per la maggior parte da giovani donne che, in molti casi, sfidano anche il sistema editoriale, che non sempre concede loro spazio, e scelgono strade di condivisione alternative e indipendenti.

Per fare lor spazio, all’interno del panorama letterario, diventa essenziale superare le classificazioni rigide ed essere in grado di cogliere di volta in volta gli agganci sulla realtà che ci vengono offerti.




*Foto di copertina: frame iniziale del booktrailer dell'edizione tedesca del libro.
Roberta Ylenia Tartaglia è appassionata di letteratura, in particolare tedesca e nederlandese. Aspirante critica letteraria, attraverso la sua attuale ricerca esplora i possibili utilizzi dell’approccio intersezionale in campo artistico.