Analizzando il costante parallelo delineato da Gabriel García Márquez tra violenza intima e violenza sociale, Nadia Celis ci porta nei Caraibi macondiani, offrendoci le chiavi per comprendere l'ingiusta condizione delle donne nel mondo patriarcale, una cultura della violenza che ritorna nella Colombia di oggi.
La violenza sociale e la questione di genere in Cent'anni di solitudine.*
Le forze che riattivano il ciclo della violenza in ogni stagione di Macondo non si possono spiegare senza la dimensione intima. Uno sguardo alla violenza sessuale e di genere nel nucleo familiare dei Buendía rivela che la violenza non è affatto l'effetto fortuito di forze esterne, bensì una condizione di possibilità del potere, nel privato e nel pubblico. Il detonatore interno di questa violenza precede la fondazione del villaggio e risale all'esilio reso necessario dall'agire di José Arcadio Buendía, il quale, vittima di uno scherzo che ne mette in dubbio la potenza sessuale, uccide un rivale e violenta la moglie Úrsula.
La violenza di genere, reiterata di generazione in generazione nel controllo esercitato dai discendenti, attraverso il sesso e l'"amore" sulle donne di Macondo, appare a partire da quest'episodio legata all'affermazione sia degli aspetti psicologici dell'identità mascolina sia dei privilegi sociali associati alla mascolinità patriarcale, il cui caratteristico desiderio di dominio è il vettore comune delle ondate che fanno precipitare l'ascesa e la distruzione di Macondo. Ne è un esempio la cerimoniosa e accanita colluttazione che consente al penultimo dei Buendía di consumare l'incesto con la zia, Amaranta Úrsula, e certificare, oltre alla supremazia sessuale, anche la propria superiorità intellettuale, completando poi la missione fondamentale degli uomini della sua stirpe: decifrare i manoscritti.
Insieme alla solitudine, il bisogno di imporsi (la superbia, dirà Úrsula) non è solo il tratto distintivo degli uomini della stirpe, ma anche la ragione profonda dei conflitti bellici, della corruzione, delle esecuzioni, del dispotismo e delle perversioni in cui incorrono i Buendía. In nome della brama di potere, i protagonisti di Cent'anni di solitudine diventano, nell'intimo, aggressori delle proprie partner, nel pubblico, responsabili della degenerazione del contesto sociale.
Come suggerisce Úrsula riflettendo sulla propria vecchiaia, lo stigma della solitudine è il risultato dell'incapacità di amare. La solitudine, quindi, si può leggere nella dimensione intima come una metafora del narcisismo dei Buendía, causato non tanto da un destino imperscrutabile quanto da un sistema di valori che, a giudicare dalla nostra colonna sonora quotidiana, è ancora vivo nella Macondo del ventunesimo secolo. I Buendía sono condannati alla solitudine, perché non sanno amare senza comandare, perché il loro desiderio di soggiogare riduce i rapporti intimi a rapporti di dominazione. Di conseguenza, per i macondiani e le macondiane, il sesso o l'"amore" sono possibili solo quando si ha la certezza di aver conquistato, ruolo riservato agli uomini, o quando ci si "arrende" all'amore o si accetta la sottomissione, posizione associata alle donne. Nel nucleo di questa definizione dell'amore risiede una classificazione gerarchica dell'identità di genere, che riduce il femminile a oggetto passivo di controllo, non soltanto sessuale, e innalza gli uomini a soggetti attivi, nel privato e nel sociale.
D'accordo con l'economia sessuale che si poggia su questa classificazione, le donne mancano di umanità propria, ma sono indispensabili come specchio per l'autoaffermazione altrui e come mezzo per la legittimazione pubblica della mascolinità degli uomini a cui si legano sessualmente e affettivamente. Questa concezione sessuale spiega oltretutto che tipo di ostacolo siano sessualità e amore per l'autonomia delle donne di Macondo, origine della solitudine delle Buendía.
Il paesaggio di Macondo è definito da una gamma di personaggi femminili esuberanti e irriducibili, con "poteri" che vanno dagli espedienti adoperati per soddisfare gli appetiti smisurati di mariti, figli e amanti, alle meravigliose dimostrazioni di fertilità e chiaroveggenza. Ad ogni modo, in una fedele riproduzione degli immaginari culturali caraibici e latinoamericani, nell'universo macondiano le donne esistono e sono valutate in funzione del ruolo che hanno nella vita dei "loro" uomini, e la voce narrante sembra non concepire l'autonomia dei personaggi femminili al di là di tali ruoli. Un altro tratto che hanno in comune la finzione garciamarquiana e i parametri di genere e sessualità nella realtà di Colombia e America Latina è la classificazione delle donne rispetto alla disponibilità sessuale, che a Macondo costituisce un vero e proprio bene a servizio delle necessità fisiche e psichiche degli uomini, nel migliore dei casi in una logica di reciprocità per cui le donne "decenti" soddisfano bisogni di affetto o di riconoscimento sociale, e quelle di mondo sono compensate economicamente.
All'altra estremità dello spettro femminile, il mito dell'allegra e disponibile sensualità di caraibici e caraibiche è amplificato e ratificato nell'opera garciamarquiana dalla spensieratezza di amanti e prostitute, la cui apparente celebrazione è anch'essa ancorata a un'economia sessuale patriarcale. Difatti, la sessualità usa e getta di queste donne integra e, permettendo la soddisfazione dei desideri mascolini, rende possibile il continuum che tiene le vergini in attesa, perché siano adatte al matrimonio, e riduce le madri a corpi privi di erotismo.
La doppia morale sulla sessualità, per cui l'esercizio "pubblico" o fuori dal matrimonio degrada le donne mentre afferma la virilità degli uomini, così come le aspettative contraddittorie che il desiderio e l'"amore" instaurano negli uomini e nelle donne, sono altrettanto palesi nel paesaggio sentimentale di Macondo. La logica del discorso amoroso conduce, da un lato, all'accettazione del dominio mascolino e alla rinuncia all'autonomia dei personaggi femminili, dall'altro, alla giustificazione dei privilegi che i protagonisti maschili esercitano, spesso con violenza, sulle "loro" donne.
Esempi paradigmatici del processo per cui il corpo e l'esistenza stessa delle donne sono meramente al servizio dei personaggi maschili sono, in Cent'anni di solitudine, Úrsula y Pilar Ternera. Se da un lato Úrsula è Maria, archetipo di una sessualità riproduttiva e non erotica legittimata dal matrimonio, Pilar è Eva, archetipo della sessualità "peccaminosa" che la posiziona come corpo disponibile. Nonostante la disinvoltura attribuita a quest'ultima, anche l'origine della sua sessualità è uno stupro, subito a quattordici anni da un uomo "altrui", sposato. Alle distinzioni fra donne buone e cattive, si aggiungono quelle di classe e razza, in una gerarchia che colloca Úrsula e Fernanda nel ruolo di "matriarche" e occulta il ruolo fondamentale che rivestono, per il funzionamento della casa, il prolungamento della stirpe e la prosperità economica del villaggio, non solo Pilar, madre, nonna e bisnonna dei Buendía, ma anche Visitación, la donna indigena, l'indefessa Santa Sofia de la Piedad, la cui verginità è comprata da Pilar per il figlio Arcadio, e Petra Cotes, l'emblematica "amante" mulatta, il cui erotismo alimenta la ricchezza di Aureliano Segundo.
Lo straordinario prisma culturale di Cent'anni di solitudine ci offre, tuttavia, le chiavi per comprendere la condizione ingiusta e assurda delle donne nella classificazione patriarcale. Le giovani Buendía esprimono un desiderio di autonomia che va ben oltre le fantasie maschili che le condannano alla passività e al godimento masochista che lo stesso narratore attribuisce alle donne negli incontri sessuali con i suoi congeneri. Le Buendía ricorrono anche allo sfogo "illegittimo" del desiderio: Amaranta, nei giochi sensuali con i nipoti; Rebeca, nel crimine con il fratello adottivo; Meme, nella tresca con Mauricio Babilonia, e Amaranta Úrsula, nella godereccia relazione con lo sposo che accende il desiderio del penultimo Aureliano, con il quale finirà per concepire il tanto temuto bambino con la coda.
Illuminato dalla ribellione sepolta delle donne della stirpe, anche l'ascensione dell'imperscrutabile Remedios, la bella, può essere interpretata non più come la sublimazione della sua purezza, ma come la fuga da un mondo che non riesce ad accettarla libera. Remedios è emblema tanto delle proiezioni del desiderio sessuale maschile – che lei non capisce – sui corpi femminili, quanto dei dilemmi affrontati dalle donne che si rifiutano di "indossare" i ruoli predisposti per loro da una società patriarcale. In ogni caso, le Buendía sono evidentemente punite con l'isolamento sociale e il risentimento, con la prigionia in convento e l'oblio, se non con una morte tragica. Persino la "magica" sparizione di Remedios, in questa cornice, potrebbe suggerire che a Macondo non c'è posto per una donna che non accetti di sottomettersi agli uomini, nemmeno in nome dell'amore.
Dietro l'apparente magia che amalgama eventi storici, leggendari e fantastici in quel grande arazzo delle realtà latinoamericane che è Cent'anni di solitudine si delinea costantemente il parallelo fra violenza intima e violenza sociale. Così come Macondo, anche quella colombiana è una cultura della violenza, dove abbiamo appreso a suon di botte a difendere il diritto di qualcuno a imporsi con la forza, e a colpevolizzare le vittime perché "hanno provocato".
Quanto sia grave la cultura della violenza lo si può riscontrare tanto nella difesa pubblica dell'aggressore quanto nella privata devozione che continuano a ispirare gli uomini che "si fanno rispettare". I macondiani e noi che ne discendiamo non abbiamo superato il ciclo della violenza, non solo per le forze che storicamente si sono disputate il potere politico ed economico sulle nostre terre e i nostri corpi, ma anche per le nostre intime acquiescenze con queste forze.
Nonostante i progressi legali nel trattamento della violenza sessuale e di genere, l'impunità e i discorsi sessisti che circolano nei media, nella cultura popolare e nelle reti sociali alimentano l'idea che l'aggressione fisica e sessuale sia giustificabile, peggio ancora, come atto d'"amore". Paradossalmente la celebrazione del privilegio maschile di dominare rende uomini e donne complici delle relazioni che li subordinano a livello sociale e politico, e li rende vittime e carnefici nel dramma della loro solitudine.
*Pubblicato per gentile concessione dell'autrice. L'articolo originale in spagnolo è qui.
Le foto sono di Alberto Bile.
Nadia Celis Salgado, nata in Colombia, è professoressa associata al Bowdoin College (Stati Uniti), dove insegna Letteratura latinoamericana e caraibica, e dirige il programma di Studi latinoamericani, caraibici e latinx. Le sue ricerche sono perlopiù incentrate su studi di genere nella narrativa e nella cultura del Gran Caribe e della diaspora. È autrice del libro La rebelión de las niñas: el Caribe y la “conciencia corporal” (Madrid, Vervuert, 2015), vincitore del premio Nicolás Guillén della CPA – Caribbean Philosophical Association – e sta attualmente lavorando al libro La soledad de las Buendía: intimidad y violencia en el mundo de García Márquez.