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La maison des Babayagas

Intersezioni
Femminismo e cura radicale nella terza età

La Maison des Babayagas nasce nel 2013 con lo scopo di dare vita a una pratica abitativa che ponesse al suo centro i bisogni delle donne anziane, altrimenti stigmatizzate dall’azione combinata di ageismo e sessismo. Nel mettere a rete una comunità di «vecchie», con un dichiarato impegno anti-patriarcale, il caso delle Babayagas offre importanti spunti di riflessione su pratiche femministe di inclusività e di resistenza ai meccanismi di oppressione che strutturano la società neoliberale.
L’Italia è un paese particolarmente longevo: ci sono oltre 14 milioni di over 65 che costituiscono il 23% circa della popolazione totale. Nonostante il discorso pubblico si trovi spesso a ponderare questioni inerenti alla crescente percentuale di anziani e anziane, sembra che la voce di queste ultime venga costantemente ignorata in tale dibattito. Il risultato è che i bisogni sociali e politici oltre che le aspirazioni di vita delle persone anziane faticano a trovare una risposta soddisfacente.

L’oscuramento delle problematiche delle anziane e degli anziani è sicuramente riconducibile, almeno in parte, alla crisi della cura che affligge la nostra società. Con la svolta neoliberale che in Italia si è verificata intorno alla fine degli anni ’90, il cosiddetto stato sociale è stato smantellato e le politiche di welfare si sono dimostrate sempre più carenti, costringendo tanta parte della popolazione a vivere in condizioni di precarietà. Il caso dei soggetti anziani figura tra i più critici: dopo anni di politiche di austerità e tagli alla sanità pubblica, l’avvento della pandemia ha fatto una vera e propria strage nelle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa), secondo strumento più fruito in Italia nell’ambito della long term care dedicata alle anziane, agli anziani e alle persone non autosufficienti.

Il quadro diventa ancora più drammatico se a quest’analisi applichiamo una lente di genere, strettamente necessaria almeno per due ragioni: innanzitutto per la maggiore longevità delle donne (la popolazione anziana in Italia è composta per il 60% da donne) e in secondo luogo, per quello che Susan Sontag, negli anni ‘70, definiva il «doppio standard dell’invecchiamento». Secondo la scrittrice americana, le donne patiscono di più il percorso verso la terza età in quanto tragitto che le conduce alla perdita del proprio capitale sociale. Quest’ultimo, infatti, nelle società patriarcali occidentali è strettamente legato, per le donne, alla desiderabilità del loro corpo, cifra del loro valore totale di persona. Non a caso, il numero di donne anziane che vivono da sole supera di gran lunga quello degli uomini nella stessa situazione (questo dato è storicamente invariato da quando è stato mappato per la prima volta): «Quasi la metà delle donne di 75 anni e più vive da sola […]. Capovolta la situazione degli uomini, il 21,7% vive solo e il 68% in coppia».

Le donne anziane sono più sole degli uomini anziani e dunque sempre più sovente costrette a provvedere per sé quando non hanno la capacità e le risorse per delegare tale responsabilità ad altre o altri. Ciò è subordinato almeno in parte a una disponibilità economica che molto spesso le donne non hanno. A fare da corona a una problematica vissuta anche dalle più giovani, ovvero il gap degli stipendi, esiste anche un gap pensionistico che ad oggi supera il 30% ed è motivato dalla maggiore precarietà delle donne nel mercato del lavoro. Le donne infatti, «non solo hanno stipendi più bassi, ma hanno spesso carriere discontinue» e sono maggiormente impiegate in lavori precari «con contribuzione bassa o nulla». Pertanto, sono più spesso impossibilitate a rintracciare per via privata i servizi socio-sanitari di cui necessitano e devono appoggiarsi all’offerta dello stato, con le sue enormi lacune e punti ciechi.
Oltre alla solitudine e insicurezza materiale che caratterizza la vita delle donne anziane, la femminista americana Susan J. Douglas, nel suo libro In Our Prime, fa notare come queste siano private di soggettività politica e silenziate persino nei movimenti progressisti o femministi contemporanei. Le loro posizioni sono spesso bollate come tradizionaliste, associate alle derive più bioessenzialiste e transfobiche del cosiddetto femminismo di «seconda ondata» o accantonate in quanto anacronistiche. Secondo Douglas, le donne anziane sono ostracizzate nei femminismi contemporanei e distanziate dagli spazi radicali. Allontanate dalla politica dal basso e invisibili alla politica istituzionale, le forze ostili che muovono contro le anziane si costituiscono di una combinazione di ageismo e sessismo. Il risultato è che queste donne divengono nella coscienza collettiva dei soggetti totalmente depoliticizzati, isolati e spinti verso una vita condotta in condizioni di solitudine esacerbata, senza alcuna rete di supporto per sfuggire a tale destino.

Riscrivere le coordinate della vecchiaia femminile è il progetto filosofico della Maison des Babayagas nata nel 2013 a Montreuil, in Francia. L’iniziativa della sua fondazione viene dalla femminista radicale Thérèse Clerc la quale assieme a un gruppo di compagne intendeva dare vita a una soluzione abitativa per le «vecchie»; le Babayagas si definiscono così riappropriandosi del termine solitamente utilizzato in senso dispregiativo. Ciò che le ha spinte a intraprendere il progetto è stata la volontà di abitare un luogo organizzato in totale autonomia da donne anziane e fondato sui principi di autogestione, solidarietà, cittadinanza ed ecologia. La finalità è di dimostrare che l’anzianità non è necessariamente una condizione limitante.

Al contrario, per Clerc è fondamentale far passare il messaggio che la vecchiaia è un’età da celebrare, un’età di innovazione, di creazione, che le vecchie sono l’avanguardia illuminata. Esse attraversano un momento della vita in cui gli oneri a loro carico in quanto donne (lavoro di cura) e in quanto soggetti produttivi (lavoro salariato) vengono meno; ciò le collocherebbe al di fuori degli schemi di produzione e riproduzione che nella società neoliberale dettano gli obblighi espliciti e impliciti secondo cui sono strutturate le vite dei singoli e le relazioni tra loro. Pertanto, secondo Clerc, l’essere ai margini in tal senso offre alle anziane un punto di vista privilegiato per osservare e criticare i meccanismi subdoli del potere. Uno degli obiettivi fondamentali delle Babayagas, quindi, è quello di restituire soggettività e legittimità politica alle istanze delle vecchie in quanto rilevanti per individuare e problematizzare questioni relative alla società tutta. Inoltre, le Babayagas intendono scalfire la concezione comune secondo cui la vecchiaia equivale alla fine della vita, o a una sorta di malattia che comporta l’incapacità di essere autosufficienti... È importante infatti per le Babayagas che le vecchie cessino di essere infantilizzate e vengano invece riconosciute come soggetti politici dotati di agency a tutti gli effetti. La maison è gestita in modo partecipativo da tutte le sue abitanti che coordinano la vita in comunità nelle loro assemblee settimanali.
Thérèse Clerc nel 2014, © Vincent Nguyen / Libération
Caratteristica della casa è la sua concezione e strutturazione come luogo separatista. Questa scelta operata dalle Babayagas ha causato non poche polemiche e ha talvolta ostacolato le donne della maison nell’ottenere fondi per la costruzione e gestione della struttura. Clerc e le altre tuttavia, figlie del femminismo degli anni ’70, restano ferme sul punto che abitare corpi anziani e relazionarsi con essi implichi una mole alquanto considerevole di lavoro di cura. Includere uomini all’interno della casa, secondo la fondatrice della maison, rischierebbe di riprodurre gli schemi per cui sono i soggetti a socializzazione femminile (le donne) a farsi carico in modo sproporzionato dell’onere della cura. Inoltre, Clerc e le altre si sono sempre mostrate profondamente coscienti delle difficoltà specifiche che segnano l’invecchiamento per le donne e hanno strutturato il loro progetto proprio a partire da tali considerazioni, pensando, dunque, alle donne come loro target esclusivo. Tuttavia, le Babayagas sono state anche aperte a modificare il progetto in corso d’opera: la struttura è stata resa parzialmente intergenerazionale ospitando non più di quattro abitanti con meno di 25 anni sul totale dei 25 alloggi disponibili; la maison è diventata luogo d’incontro per associazioni locali di anziani e persone disabili con l’intento di mettere in relazione diversi gruppi di persone. Queste azioni hanno ampliato lo spettro d’azione della Maison des Babayagas nel corso del tempo, pur non snaturandola nella sua impostazione separatista.

Il valore filosofico, politico e sociale della casa di Montreuil è smisurato, ma è importante specificare che non si tratta di una struttura sanitaria che accoglie persone non autosufficienti. Si tratta invece di un tentativo di costruire un luogo che favorisce la vita in comunità e che garantisce assistenza e cura tra pari, dimostrando che la vecchiaia è un’età ancora ricca di possibilità laddove vengano creati spazi per farla fiorire. Perciò il modello della casa delle Babayagas non è adatto a rispondere a problematiche dal carattere più specificamente medico-sanitario. I valori fondanti della casa e la sua amministrazione autonoma basata sulla collaborazione e sull’assenza di gerarchie costituiscono piuttosto uno strumento rilevante in termini politici, dando una misura delle possibilità di una resistenza delle vecchie. Tuttavia, anche sotto questo aspetto, è evidente che non si tratta di un modello ineccepibile, in quanto sono numerose le divergenze politiche e amministrative che emergono tra le inquiline e che spingono circa tre su cinque di queste a lasciare la maison. Questo dato è comunque ulteriore dimostrazione del fatto che la Maison des Babayagas non ha vocazione assistenzialista. Come testimoniato da una Babayaga durante un’intervista con Radio France, la casa di Montreuil si distingue da altre strutture per anziane in quanto luogo «vivo», attivo, di scambio, dal quale si entra e si esce liberamente, a differenza di Rsa o «case di riposo» dove, secondo la Babayaga si approda esclusivamente per sostare in attesa della morte.

Nonostante le difficoltà pratiche di portare alla concretezza un progetto così ambizioso di inclusione e cura radicale e femminista, il caso delle Babayagas resta unico nel suo genere. I cosiddetti habitat autogéré (alloggi autogestiti) non nascono con le Babayagas ma sono un modello abitativo che si è diffuso in Francia a partire dagli anni 2000 per consentire alle persone anziane di vivere in maggiore autonomia. Tuttavia, le Babayagas sono esemplari in quanto solo gruppo laico che mette in relazione donne con una caratterizzazione politica ben definita. Le Babayagas esemplificano inoltre il patrimonio che il femminismo degli anni ’70 ci ha lasciato e che si mostra essere ancora rilevante nel contesto contemporaneo. Un’associazione di anziane che si prendono cura l’una dell’altra e che fanno ciò in uno spazio non misto è un emblema della radicalità tramandata da questo filone di femminismo. Non esistono, infine, altri gruppi in habitat autogéré il cui intento dichiarato è di evadere la dominazione patriarcale attraverso la pratica del mutuo supporto.

Le Babayagas ci ricordano che se le cure mediche per le persone anziane sono sicuramente necessarie, il benessere è «multidimensionale» e si articola su più fronti: «quello psicofisico, quello socioeconomico, quello relazionale, quello partecipativo». Nel panorama italiano in cui le donne anziane conducono vite perlopiù solitarie e depoliticizzate, l’esempio delle Babayagas è una dimostrazione che è possibile oltre che fondamentale dare l’opportunità alle donne anziane di superare gli ostacoli che le separano le une dalle altre per condurre vite più piene, ricche di benessere nella sua accezione più ampia e sfaccettata. Sul loro modello, si può iniziare a riflettere su come intessere reti di cura reciproca gestite in maniera orizzontale che tengano al loro interno anche soggettività marginalizzate, partendo dal caso delle donne anziane per trovare possibilità di inclusione anche per altre soggettività che vivono in condizioni di precarietà, isolamento, vulnerabilità.
Kerstin, Flora e Catherine, tre Babayagas, © MAM / actu Paris
Figura ambivalente della mitologia slava, la Babayaga è una strega, solitamente rappresentata da una donna molto anziana; nel linguaggio colloquiale francese il termine viene anche utilizzato anche col significato di «nonna». Come nota Silvia Federici in Witches, Witch-hunting and Women, la strega è una figura esemplare della sovversività femminile. Ed effettivamente, le Babayagas hanno delle qualità speciali: questa congrega di vecchie francesi, da ormai dieci anni, sfida sfacciatamente il potere patriarcale e rigetta il modello gerarchico-assistenzialista, mostrandone le enormi lacune e dimostrando i benefici dell’orizzontalità nell’intessere reti di relazioni. Nella società neoliberale contemporanea che privilegia l’individuo e la competizione e riduce il rapporto con l’altra a transazione o sfruttamento, riconoscere la nostra interconnessione e interdipendenza in quanto esseri viventi, come fanno le Babayagas, è condizione necessaria per la sopravvivenza e per una vita rigogliosa.
Vera Sibilio è laureata in Lingue e Culture Comparate all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Successivamente ha conseguito un Master in Conflict Studies alla London School of Economics and Political Science e un Master in Studi e Politiche di Genere all’Università Roma Tre. Si interessa e scrive di femminismo radicale e femminismo meridionale, analizzato in chiave postcoloniale. Co-cura il progetto di divulgazione @iconografiecarlalonzi, frutto di lavoro di ricerca su Carla Lonzi e il gruppo di Rivolta femminile.