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La vita delle operaie marocchine

Mediterraneo
L’8 febbraio scorso 29 persone, di cui la maggior parte donne, hanno perso la vita in seguito all’allagamento del locale in cui lavoravano: un atelier della periferia di Tangeri in cui fabbricavano capi di moda per il mercato europeo. Questo avvenimento è un’occasione per riflettere sulla fast fashion e sulla delocalizzazione delle attività produttive attraverso catene di subappalti che dalle fabbriche delle zone franche arriva a coinvolgere atelier improvvisati nelle periferie della città.
Una storia che ci riguarda
Je ne vole pas, je me rembourse. Je ne cambriole pas, je récupère. Je ne trafique pas, je commerce. Je ne me prostitue pas, je m’invite. Je ne mens pas, je suis déjà ce que je dis. Je suis juste en avance sur ma propre vérité.
Da Sur la planche di Leïla Kilani (2011)
Sono morte in seguito all’allagamento del locale in cui lavoravano, un seminterrato di Ben Diban, periferia della città di Tangeri: 29 persone, di cui la maggior parte donne.
È la mattina dell’8 febbraio 2021. Da giorni la città è interessata da fortissime piogge. L’acqua invade le strade delle numerose periferie cosparse di abitazioni non a norma e prive di servizi essenziali. Un intero quartiere costruito sul letto di un fiume è in poche ore invaso dalle acque torrenziali. La strada davanti al locale dove lavoravano le donne decedute si allaga velocemente e mura laterali e costruzioni abusive impediscono lo scorrimento del fiume d’acqua. Il locale si riempie in fretta e le persone all’interno muoiono annegate. 
Un atelier tessile, uno dei tanti di cui le periferie sono disseminate: seminterrati o magazzini dalle finestre alte e strette, così che nessuno possa guardare all’interno. Oltre alle numerosissime zone franche e industriali della regione nord del Marocco, a partire dagli anni 90 sono sorti migliaia di atelier informali per rispondere all’incostante domanda del mercato. Qui, una manodopera principalmente femminile lavora in condizioni precarie, senza contratto e con una paga inferiore allo smig, il salario minimo pari a circa 200 euro al mese. Nel caso in questione si trattava di un piccolo atelier autorizzato ma, nonostante ciò, a pagare le prime conseguenze di quanto accaduto è soltanto il proprietario dell’attività commerciale, in stato di detenzione preventiva per omicidio involontario e violazione del codice del lavoro. Nessuna responsabilità è attribuita invece agli organi deputati al controllo, a chi diede l’autorizzazione all’avvio dell’attività, o ad Amandis, l’ente delegato per la gestione idro-elettrica della città. Men che meno viene chiamata in causa la responsabilità delle firme multinazionali presenti nel locale, coperte da quella generale opacità prodotta dalla frammentazione del processo produttivo.  
La vicinanza geografica del Marocco all’Europa e il basso costo della manodopera sono tra le ragioni per cui numerose multinazionali europee delocalizzano la loro produzione. Si tratta, nello specifico, di contratti di sub-appalto a vantaggio delle imprese nelle numerose zone franche della regione nord del Marocco. Quest’ultima non dispone di una filiera integrata, diversamente dall’Egitto e dalla Turchia, ma riceve la maggior parte delle materie prime dall’Europa e restituisce il prodotto finito. Le vendeurs du minute, così sono chiamate le imprese tessili che operano principalmente in qualità di fornitrici di servizi. Un rapporto stilato dall’Istituto francese di moda IfM circa il punto di vista delle imprese europee, riporta quanto segue: «Il faut compter 3 à 4 jours pour ‘descendre’ les tissus, 7 jours pour produire (10 en cas de grosses quantités), 3 à 4 jours pour ‘remonter’ la production, en tout 2 à 3 semaines pour le cycle». Cos’è che permette una tale capacità di risposta alle richieste delle imprese europee? Possono, da sole, la prossimità geografica e la mole di finanziamenti per l’installazione di zone franche in Marocco rappresentare una risposta sufficiente? Ovviamente no.
La maggior parte del mercato del tessile è detenuto da Inditex, uno dei più grandi rivenditori al mondo nel settore della moda e comprende i gruppi “Zara”, “Pull&Bear”, “Massimo Dutti”, “Bershka”, “Stradivarius”, “Oysho, Zara Home” e “Uterqüe”. Le interlocutrici dirette di Inditex sono le fabbriche delle zone franche: strutture generalmente a norma e in cui i lavoratori e le lavoratrici dispongono di un regolare contratto. Ma la fast fashion si caratterizza anzitutto per una forte instabilità della domanda: la commessa, ossia la produzione da subappaltare alla fabbrica marocchina, non è mai costante e può dunque eccedere le capacità produttive della singola fabbrica o, al contrario, richiedere un impegno produttivo nettamente minore, obbligando dunque il proprietario dell'attività a ricercare ulteriori commesse al fine di sostenere i costi dell'azienda. Nel caso in cui il quantitativo richiesto superi la capacità di produzione, esso viene subappaltato nuovamente ai piccoli atelier clandestini sparsi nelle periferie della città. Un sub-appalto a cascata non lineare ma reticolare. Da qui l’impossibilità di attribuire diretta responsabilità alla firma. Le condizioni di ricattabilità aumentano col progredire della catena del subappalto. Quando è presente una commessa, si deve lavorare duro, nei tempi dettati dalla fast fashion. Quando è assente, si resta a casa oppure si lavora sull’invenduto, da destinare al mercato interno ma senza ricevere alcuna retribuzione: solo la sopravvivenza del padrone è garantita, in attesa di tempi migliori per tutte. Nessun contratto, nessuna tutela.
È il prezzo del prêt à porter! È il prezzo della moda europea che dura il tempo di una stagione.
L’economia-mondo, la frammentazione del processo produttivo, la moda, il consumismo vistoso che, come scrivono Wilkinson e Pickett (L’equilibrio dell’anima, 2019), è la nuova forma di autopromozione in un contesto privo di legami comunitari, discorsivi spazi del confronto, attiva partecipazione alla vita che consideriamo degna di essere vissuta (Sen, Lo sviluppo è libertà, 2000). A vestirci, sono trame di narrazioni: incendi nelle fabbriche in Pakistan, crolli di quelle in Bangladesh e centinaia di furgoncini bianchi che ogni giorno trasportano migliaia di uomini e donne nelle zone franche del nord del Marocco.
Per noi altri/e, al di qua del mare, si tratta di una passeggiata in quei non-luoghi che sono diventati i corsi principali dello shopping cittadino e dell’acquisto di un capo di moda a poco prezzo.  
Lucia Turco è una ricercatrice indipendente, o almeno così firma quei pochi articoli accademici che le capita di scrivere. La sua ricerca principale è trovare modi sempre nuovi di far divertire suo figlio e di fargli tenere su la testa.