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Sentirsi a casa

Intersezioni Movimenti
30 anni fa a Bologna: mondiali di calcio, sgomberi delle abitazioni informali, e la nascita di un movimento di rivendicazione del diritto alla casa con una manifestazione di 5mila persone, la gran parte delle quali marocchine.
Sono trascorsi 30 anni dall’occupazione di alcune palazzine in via Stalingrado, a Bologna, e dalla manifestazione per il diritto alla casa che porta, in quegli stessi giorni, cinquemila persone nelle strade del centro storico del capoluogo emiliano. Gli occupanti di casa, e la maggior parte dei manifestanti, sono lavoratori marocchini, giunti a Bologna per lavorare nell’industria locale a partire dalla fine degli anni ’80. Nel settembre 1990 molti di loro hanno già subito uno sgombero dalle abitazioni informali dove vivevano fino a quando, durante quell’anno, l’amministrazione aveva deciso di intervenire per preparare la città ai mondiali di calcio. Per questo avevano dovuto lasciare forzatamente “via del Cartone”, la via ribattezzata così dai suoi stessi abitanti, che vivevano all’interno delle proprie automobili sotto il ponte di San Donato, utilizzando dei cartoni come coperte. Occupando le palazzine di via Stalingrado, abbandonano i centri di accoglienza allestiti in tutta fretta dal comune di Bologna in strutture fatiscenti e malsane. Altri lasciano il centro sociale Fabbrika, dove avevano trovato una sistemazione concordata tra il comune e gli attivisti, ma anche un luogo dove sviluppare un discorso politico sulla casa, dando vita al Comitato Senza Frontiere con alcuni solidali del centro sociale.

I giornali di allora registrano gli eventi che vedono come protagonisti 'i neri'.
L’occupazione di via Stalingrado e le altre avvenute in quell’autunno segnano l’avvio dello stretto legame tra i marocchini e le marocchine che vivono in Italia e la rivendicazione del diritto alla casa.

A Bologna come in altre città italiane, la ricerca di una stabilità abitativa ha preso spesso la forma dell’occupazione, ritenuta preferibile rispetto a offerte istituzionali temporanee e vincolanti (centri di accoglienza e strutture emergenziali di vario tipo, con diverse limitazioni nella gestione autonoma della quotidianità) e a un affitto impossibile da pagare o da ottenere, perché molti proprietari, nel 1990 come oggi, se hai un cognome straniero “Ti dicono lascia il numero, ti richiamiamo”, ma poi non richiamano.

L’obiettivo di questo breve testo non è raccontare le fasi di questa storia complessa, vorrei piuttosto concentrarmi su un aspetto particolare della ricerca più ampia che ho condotto – nel corso del dottorato di ricerca che sto per concludere – sul disagio abitativo dei/delle marocchini/e in Italia: l’idea di casa che i/le migranti marocchini/e portano con sé in un percorso accidentato tra sfratti, graduatorie per la casa popolare e soluzioni precarie, e come quest’idea prenda forma nell’occupazione abitativa.

Per la mia ricerca, ho intervistato attivisti/e per il diritto alla casa ed ex occupanti che hanno ridato vita, tra il 2014 e il 2015, a uno stabile in disuso nel quartiere della Bolognina, conosciuto come ex Telecom

Se prima dell’occupazione questo grande edificio le cui vetrate coprono tutta la facciata principale era abbandonato, oggi che sono trascorsi cinque anni dallo sgombero violento delle famiglie marocchine, italiane e di altre nazionalità che vi avevano abitato per circa un anno, l’ex Telecom è tornata a essere un edificio inutilizzato, dove i lavori di ristrutturazione per trasformarla in hotel per studenti facoltosi non sembrano procedere se non a tratti.

Al momento dell’occupazione le 76 famiglie che sono entrate nei locali dell’Ex Telecom insieme al collettivo Social Log vi hanno trovato una struttura adibita a ospitare uffici, con una grande sala conferenze dove occupanti e attivisti hanno trascorso la prima notte. Uno spazio simile richiedeva dei lavori di ristrutturazione per rendere i vari luoghi abitabili, diversi da caso a caso in base alle dimensioni del nucleo familiare che vi si trasferiva. Tuttavia, l’adattamento alle esigenze degli abitanti non è avvenuto solo attraverso la suddivisione e organizzazione delle stanze in funzione dei componenti di ogni famiglia, ma anche con un’effettiva appropriazione dello spazio affinché fosse connotato in termini identitari e culturali. Da lì in avanti quell’ufficio riconvertito ad abitazione sarebbe stato una casa, con una sua forte valenza simbolica.

Intervistati sul tema della casa, gli/le ex occupanti marocchini/e che ho incontrato hanno lasciato emergere un atteggiamento simile a quello che, in un’altra occasione, avevo notato tra le persone ritornate in Marocco dall’Italia dopo il 2008, sull’onda della crisi economica. La casa per loro rappresenta la riuscita di una carriera migratoria, e allo stesso tempo uno strumento per dimostrare un legame simbolico verso quella che viene vista come la propria identità culturale e in particolari con aspetti tradizionali della società marocchina. Per questo, in Marocco, le rimesse e gli investimenti dei migranti vengono destinati principalmente alla costruzione di case, anche se queste restano vuote per undici mesi all’anno, con l’eccezione del periodo di vacanze trascorso nel paese di origine. Alla base di questa scelta c’è un attaccamento fortissimo alla casa, intesa dalle famiglie marocchine in Italia non come abitazione di proprietà, che molte non possono permettersi: è la casa popolare ad essere la maggiore aspirazione. Su questo punto occorre un chiarimento: l’opportunità di comprare casa non si presenta non solo perché economicamente fuori portata, ma anche perché, insieme alle risorse necessarie, i potenziali compratori dovrebbero avere allo stesso tempo una condizione lavorativa stabile per poter accedere al credito bancario, oltre a un’abilità linguistica e relazionale che gli permetta cavarsela nel padroneggiare gli aspetti burocratici dell’acquisto e di garantirsi la fiducia degli operatori di banca. Tutte queste caratteristiche si presentano raramente in una volta sola, tra le famiglie marocchine in Italia. Ragionevolmente, molto più spesso prende il sopravvento un generale senso di paura all’idea di affrontare un rischio che non si saprebbe gestire, a cui si aggiunge un aspetto simbolico, cioè il timore che una casa di proprietà in Italia rappresenti la scelta definitiva di stabilirsi in questo paese, pregiudicando in qualche modo un ritorno in Marocco nell’età della pensione.

Se comprare casa non è possibile e ottenere l’alloggio popolare resta un obiettivo a lungo irraggiungibile – e forse può essere utile ricordare che dalla casa popolare si può essere sfrattati per morosità o perché viene riassegnata ad altri sulla base del turn over, un principio per cui a tutti tocca sperimentare varie forme di precarietà, a turno – l’occupazione diventa uno dei contesti, sempre temporanei, sempre precari in cui dare forma a quel valore simbolico della casa come luogo di riproduzione di modelli identitari legati al sistema educativo, religioso e culturale familiare, protetto da una realtà esterna molto spesso non inclusiva e diffidente. La casa intesa in questo senso è innanzitutto un luogo intimo dove sentirsi, per l’appunto, ‘a casa’. Ciò si rende visibile nella cura dell’ambiente domestico e nella scelta dell’arredamento. È raro che in una casa marocchina non si trovino i seddari, i divani tradizionali, o i quadri con le scritte religiose che richiamano le sure del Corano. Questo accade anche in occupazione, dove gli/le abitanti marocchini/e cercano di riprodurre una propria intimità e una quotidianità legate ad un sistema di valori, tradizioni, e abitudini a loro familiare, riflesso nell’aspetto della propria casa.
Tra i tanti racconti, ne riporto alcuni. Chiara, attivista di Social Log, descrive alcune case degli occupanti della Ex Telecom, sottolineando la cura nell’arredamento degli spazi:

“Questa famiglia di alcuni amici miei, erano muratori, il padre lavorava con il cartongesso e ha fatto gli archi arabi con i divani, con i tappeti… Comunque delle case bellissime, ma anche perché tanti dallo sfratto si erano portati tutto, la casa l'avevano presa non arredata e quindi avevano tutti i mobili anche nuovi, e quindi le case erano molto belle. Avevano la dimensione casa però un po' particolare perché c'era gestione collettiva”.

A Roma, ho intervistato ex occupanti marocchine sgomberate da via Cardinal Capranica nel luglio 2019, e abitanti dell’Hotel 4 stelle, occupazione sulla via Prenestina che da più di un anno è sotto minaccia di sgombero.

“Vivevo come tutti i bambini, normali che vivevano nelle case private, non cambia assolutamente nulla. Quella è poi diventata casa mia, per me quella non è un’occupazione, era casa mia. Poi negli anni la sistemi piano piano. Quella era un’ex scuola, noi avevamo una classe, con il bagno interno e quindi eravamo anche fortunati e piano piano negli anni l’abbiamo sistemata. C’erano le camere, il salone, ci stava tutto. Una vera e propria casa.”

Questo me lo ha raccontato Siham, un’ex occupante marocchina di 18 anni. Riguardo all’organizzazione dello spazio, riprendo ciò che avevo scritto nel diario etnografico sull’Hotel 4 stelle:

“All’entrata sono rimaste le hall di accoglienza. Ci sono delle persone sedute a chiacchierare. (…) Ci sono poi i piani. Lunghi corridoi con le stanze d’albergo. Ognuno però le ha sistemate a modo suo. Entriamo in quella di Malika. È una cucina e un salone. I divani sono fatti con i pancali. Ci sono le immagini e le scritte religiose appese alla parete, come per ogni casa mussulmana che si rispetti. Gli faccio i complimenti per la casa e mi dice che in realtà prima era ancora più bella. Aveva verniciato tutto, messo gli impianti elettrici e fatto dei divisori, essendo il marito muratore. Poi aveva comprato i divani tradizionali marocchini. Ma ora, con la minaccia dello sgombero ha portato via tutto. Ha affittato un garage e ci ha messo tutta la roba della sua famiglia con la paura di perdere le sue cose per via dello sgombero”.

Nelle occupazioni abitative che ho preso in considerazione le donne hanno un ruolo centrale, ricreando un ambiente quotidiano di tutela verso la propria famiglia e il proprio gruppo, come luogo di resistenza verso un ambiente esterno che può presentarsi come ostile (qui riecheggia un testo significativo di bell hooks);[1] dall’altra hanno condotto una lotta politica proprio in questo ambiente esterno, essendo state in prima linea nelle rivendicazioni, nelle manifestazioni e durante gli sgomberi, com’è avvenuto proprio nel caso dell’Ex Telecom a Bologna. Attraverso il loro esempio mi è stato possibile capire come la questione della casa definisca i nostri rapporti con la società e sia per questo motivo un terreno di lotta politica.

La manifestazione di cinquemila persone, in grande maggioranza lavoratori marocchini, che ha inondato nel settembre del 1990 le strade dei caffè bolognesi e fatto rimbombare i portici al grido di “Case per tutti”, ha imposto per la prima volta all’attenzione di una città benestante del nord Italia la condizione abitativa di una parte della popolazione migrante. A distanza di 30 anni l’occupazione delle case, oltre a essere uno strumento attuale nel segnalare un problema strutturale, la necessità per molte persone di mettersi un tetto sopra la testa, è anche un modo per creare uno spazio di serenità e familiarità in traiettorie segnate dal passaggio tra diverse forme di precarietà, spesso aggravata e non alleggerita dall’intervento delle istituzioni.

[1] Si veda bell hooks, Casa. Un sito di resistenza in bell hooks e Maria Nadotti, Elogio del margine-Scrivere al buio, Tamu, 2020.

Foto dell'Ex Telecom di Michele Lapini
Meryem Lakhouite è dottoranda in Sociologia all'Università degli studi di Padova. La sua ricerca combina aspetti di sociologia delle migrazioni, sociologia dei movimenti sociali e sociologia urbana. Si è occupata, sempre per fini di ricerca, di migrazione di ritorno in Marocco (in rapporto alla crisi economica) e del dispositivo dei rimpatri volontari assistiti.