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Colonialis-migrazioni

(Anti)colonialismo
Per una consapevolezza del colonialismo italiano

Le colonialis-migrazioni sono un fenomeno complesso che legano colonialismo e migrazioni spesso forzate. Questo articolo riflette sul postcolonialismo italiano attraverso il rapporto tra patrimonio «ufficiale» dell’iscrizione Unesco di Asmara, capitale dell’Eritrea, e una produzione filmica che riflette le comunità coinvolte tra colonizzati e colonizzatori. I film Asmarina (2015) e In My Mother’s House (2016) uniscono l’esperienza privata al contesto pubblico generando nuovi approcci di consapevolezza.
In un post di Instagram risalente all’agosto 2019, Vittorio Sgarbi, critico d’arte e personaggio televisivo, ora Sottosegretario alla Cultura, definisce Asmara, capitale dell’Eritrea e patrimonio mondiale UNESCO dal 2017, come «il 56esimo sito Unesco d’Italia» durante una visita con il presidente Afewerki e altre personalità del governo eritreo. Tralasciando i motivi di una tale visita, è importante notare come il considerare Asmara «italiana» rivela quanto di rimosso e incompreso esista nel (post)colonialismo italiano. Nonostante un crescente interesse sul tema che si manifesta in una profusione di ricerche, pratiche artistiche, e discussioni a livello nazionale e internazionale, produrre una consapevolezza pubblica rimane un obiettivo difficile da raggiungere. Parlare di colonialismo vuol dire ripercorrere una storia che interessa l’Italia e la sua formazione nazionale, il suo ruolo nel Mediterraneo, i suoi rapporti con l’Africa, tutte questioni che ricadono sul presente a cascata. Una cascata che però non c’è.

Al suo posto rimane un silenzio che con difficoltà diventa udibile in alcuni contesti accademici e artistici, e più fortemente sociali per quelle persone che ne subiscono le conseguenze. Può una società collettivamente dimenticare un pezzo della propria storia durato quasi ottant’anni? Dall’acquisto della baia di Assab nel 1882 da parte del Regno d’Italia nella presente Eritrea alla fine del Protettorato sulla Somalia nel 1960, il colonialismo italiano ha conosciuto diverse fasi. I governi dell’età liberale vollero a tutti i costi assumere un ruolo nello scenario internazionale attraverso la conquista dei territori in Eritrea e Somalia e in seguito, con la concessione del porto di Tientsin in Cina dopo la Rivolta dei Boxer. Durante la guerra Italo-Turca (1911-1912), l’Italia utilizzò per la prima volta al mondo i bombardamenti aerei per conquistare le province della Tripolitania e Cirenaica nell’odierna Libia e la sete di nuovi territori portò poi alla presa del Dodecaneso e degli altri territori colonizzati. Con l’avvento del fascismo, il colonialismo divenne imperialismo e la nazione doveva espandersi per accomodare gli interessi del regime dittatoriale di Mussolini con l’occupazione nel 1936 dell’Etiopia (trasgredendo alle leggi internazionali per l’uso del gas iprite) e nel 1939 dell’Albania. Lo storico Alessandro Del Boca nel 2005 ha descritto i fatti più gravi della storia italiana nel suo famoso libro Italiani, brava gente? andando contro quel mito, duro a scomparire, di un’occupazione «buona» che avrebbe contraddistinto l’Italia rispetto ad altre nazioni, ad esempio Francia o Regno Unito.

Negli ultimi anni, la produzione artistica e culturale che interessa l’Italia e le sue ex colonie sta rivelando nuovi metodi efficaci per sviluppare un vocabolario utile a parlare di «colonialità». Alcuni film in particolare, ad esempio In My Mother’s House (2016) di Lina Fruzzetti e Ákos Östör e Asmarina (2015) di Alan Maglio e Medhin Paolos, viaggiano tra Italia ed Eritrea, attraversando geografie fisiche ed emotive e coinvolgendo storie personali attraverso il registro filmico. Entrambi i film diventano un esempio per aprire una riflessione sul patrimonio coloniale e fascista in Eritrea e Italia dal punto di vista delle persone che abitano questi spazi o che li hanno lasciati diventando parte della diaspora. Con l’iscrizione alla lista Unesco di Asmara, una riflessione sulle eredità del passato si rivela ancora più necessaria per comprendere, ad esempio, il significato divergente che assumono quei palazzi, che in Italia verrebbero considerati «fascisti» mentre in Eritrea sono diventati «patrimonio dell’umanità».

La candidatura Unesco definisce Asmara «A Modernist African City» evidenziando la pianificazione urbana della città durante l’occupazione italiana come un esempio di adattamento dell’idioma architettonico nel paese colonizzato. La costruzione del centro città, destinato ai bianchi, «a misura d’uomo», si contrasta con l’abbandono degli ex quartieri indigeni, come Abbashawel, dove ancora oggi mancano elettricità e acqua corrente. Così, i cinema art-déco, ad esempio il Cinema Impero, o il futuristico distributore di benzina Fiat Tagliero diventano patrimonio da salvaguardare. Tuttavia, il vero senso di «patrimonio» si ritrova in un aspetto andato perso con l’ufficializzazione a sito Unesco, ovvero la scomparsa di uno dei criteri inizialmente proposti all’organismo delle Nazioni Unite:
Essere testimonianza unica o eccezionale di una tradizione culturale o di una civiltà vivente o scomparsa.
Nel caso di Asmara, il riconoscimento di questo criterio avrebbe marcato la riappropriazione eritrea della città dopo il colonialismo italiano e la tragica guerra per l’indipendenza. Tuttavia, secondo l’Icomos (International Council on Monuments and Sites) questo aspetto del patrimonio della città non sarebbe evidente nell’ambiente architettonico. Questa rimozione permette una ambiguità che richiama le parole di Sgarbi celando un significato più profondo e intangibile che costituisce il patrimonio eritreo di Asmara.

Uno dei limiti della candidatura Unesco è la concentrazione sugli aspetti tangibili di un sito proposto come «patrimonio mondiale». Questo comporta una serie di difficoltà nel poter espandere il discorso sul significato di un luogo per le comunità che ci vivono. Nel caso di Asmara, questa tensione tra il discorso ufficiale e il sentimento collettivo ritorna in diversi film. Uno tra questi è il documentario rilasciato nel 2006, Asmara, Eritrea di Caterina Borelli, la quale racconta una città diversa da quella descritta dal sito Unesco. Borelli indaga attraverso interviste, passeggiate e racconti le diverse comunità che hanno fatto e fanno parte della capitale eritrea dalle sue origini mitologiche al difficile presente della dittatura. È interessante notare come il documentario sia stato girato nello stesso periodo in cui avvenivano i primi lavori alla nomina Unesco di Asmara, che diventerà ufficiale solo nel 2017. Questo film rappresenta un esempio di contro-narrazione in un’Italia che dal dopoguerra aveva via via rimosso dalla coscienza pubblica l’occupazione d’oltremare, come analizzato nella produzione cinematografica da Mancosu (2021). Dagli anni 2000, l’uso di film diventa uno strumento utile a costruire e decostruire il patrimonio tangibile e intangibile tra il paese europeo e le sue ex colonie.

Nella sua capacità di includere più strati di narrazioni in uno stesso spazio, il mezzo cinematografico collega l’esperienza personale delle soggettività rappresentate al contesto pubblico. Questo è il caso di In My Mother’s House (2016) di Lina Fruzzetti e Ákos Östör che ripercorre la storia familiare di Fruzzetti che per la prima volta incontra la parte italiana dopo anni di rifiuto. La regista nasce da padre italiano, morto durante la seconda guerra mondiale, e madre eritrea e passa l’infanzia in Sudan dopo essere scappata dal governo etiope. In seguito la famiglia si trasferisce negli Stati Uniti dove Fruzzetti trascorre la maggior parte della sua vita diventando professoressa di antropologia alla Brown University. In My Mother’s House è un omaggio a sua madre e attraversa le eredità della storia coloniale italiana da un punto di vista al contempo emotivo e clinico sui non detti che persistono nella coscienza pubblica dello stato europeo. Il documentario è ambientato tra Stati Uniti, Eritrea e Italia, dove Fruzzetti incontra e filma scene quotidiane con entrambi i lati della sua famiglia cercando risposte a quelle domande che per tanto tempo non ha approfondito:
I went to Italy and they told me they did everything for us. They lied.
(Lucia Tesba Fruzzetti, madre di Lina Fruzzetti)


E in seguito:
Lina Fruzzetti: ‘Qui in Italia la gente non vuole parlare di quel periodo là [coloniale]. Anche nei libri non si trova.

Cugino italiano: ‘Del periodo fascista tante cose non se n'è più parlato. [...] Si diceva che gli italiani hanno fatto bene’
Attraverso interviste e scene di vita quotidiana sia in Italia sia in Eritrea, Fruzzetti riesce a catturare la continua negoziazione tra una narrazione collettiva assente nel paese europeo e la controparte eritrea consapevole delle eredità del passato. Fare i conti con il colonialismo italiano vuol dire aprire dei processi di compromesso con la propria storia alla luce della «difficult heritage», o «passato che non passa», un concetto coniato da Sharon Macdonald nel 2009 in riferimento alla Germania nazista. Il film permette in un’unica narrazione di apporre significati alle architetture fisiche e sociali che altrimenti non sarebbero visibili. La presenza dell’Eritrea tra le città di Asmara e Keren attraverso riprese panoramiche urbane e dell’altopiano in In My Mother’s House è scenografica, mentre le scene familiari sono rappresentate all’interno dello spazio domestico. Alla fine, pubblico e privato si uniscono con la cerimonia all’aperto del funerale della madre di Fruzzetti a cui partecipa un gran numero di persone. Il documentario si conclude con una nota emotiva che espande il discorso sul patrimonio tra tradizioni eritree ed italiane unendo una comunità-in-farsi come quella dell’incontro delle due famiglie.
Asmarina, Alan Maglio e Medhin Paolos, 2015, © asmarinaproject.com
Di comunità parla Asmarina di Alan Maglio e Medhin Paolos che descrivono la vita habesha (etiope-eritrea) a Milano, precisamente nel quartiere di Porta Venezia. Sebbene la storia sia ambientata nella città, la narrazione viaggia tra le memorie di una diaspora estesa. Seguendo la vita di diverse persone e famiglie che abitano nel quartiere, il film documenta le diverse ondate migratorie dal periodo immediatamente post-coloniale, attraverso la guerra di indipendenza tra Eritrea ed Etiopia, fino agli sbarchi sulle coste italiane del presente. Il documentario tratta di «eredità postcoloniale» (postcolonial heritage) e si è consolidato negli anni come film esempio per parlare di quel retaggio (Mancosu, 2018; Cippitelli e Frangi, 2022). Riguardo alla narrazione sul patrimonio, il titolo riprende una canzone di Pippo Maugeri del 1956 poi reinterpretata dal popolare cantante habesha Wedi Shawl, dedicata al desiderio di liberare la capitale Asmara. La città diventa così una presenza fantasma che vive nelle memorie e nelle speranze della comunità diasporica che sopravvive grazie ai legami costruiti e saldati tra le persone.

Lui è un archivio, il nostro archivio.

Queste sono le parole dedicate a uno dei protagonisti del documentario, Michele Lettenze, italo-eritreo nato ad Asmara e stabilitosi a Milano nel periodo «postcoloniale». Lettenze porta nella sua soggettività il passato coloniale ed è diventato un punto di riferimento per la comunità. Tuttavia, il rimosso ha portato ad un muro invisibile con il Belpaese, come espresso da un’altra protagonista del documentario, Elena Woldegabriel, nata a Milano:
Vengo vista più diversamente, nata e cresciuta qua [a Milano], in confronto all’italiano nato e cresciuto lì [in Eritrea] che parla il tigrino. Lui viene visto come eritreo, io vengo vista come straniera.
Le sue parole descrivono il conflitto irrisolto del postcolonialismo italiano che non sembra cambiare, non sembra mostrarsi apertamente. Asmarina rivela una potenzialità nel racconto delle sfaccettature di una diaspora che fa vedere un mondo di solidarietà nell’incontro di storie personali che diventano collettive. Il patrimonio nel film è intangibile, fatto di tradizioni mantenute dalla diaspora attraverso i decenni, come mostrato nella scena del matrimonio e della festa. Asmarina mostra la forza di una comunità stabilitasi da più di sessant’anni in Italia. Mescolando generazioni diverse, l’attenzione ai flussi migratori aggiunge il tema sociale sollevando numerose questioni riguardanti un contesto più ampio: sulla «fortezza» Europa, sulle tragedie del Mediterraneo, o sui rapporti tra Italia e Libia, altra ex colonia.

Voler comprendere le colonialis-migrazioni, il circolo vizioso che lega colonialismo e migrazioni, passa per la consapevolezza pubblica del «passato che non passa». La superficialità nel definire Asmara come «italiana» dimostra tutta la rimozione coloniale su cui bisogna lavorare. Se esiste un patrimonio comune che lega l’Italia con le sue ex-colonie, si deve incoraggiare una conversazione sulle riparazioni e restituzioni come altri paesi stanno affrontando. L’apertura nel 2020 dell’ex museo coloniale a Roma, oggi Museo Italo-Africano «Ilaria Alpi», si inserisce in questo percorso di eventi in apparenza distaccati come la produzione artistico-culturale e accademica sulla colonialità italiana o l’iscrizione UNESCO di Asmara nel 2017. Considerare insieme questi fenomeni può aiutare a portare alla superficie i problemi delle persone che per prime vivono il conflitto con il passato. In My Mother’s House e Asmarina offrono due visioni diverse e complementari nel costruire identità e patrimonio personale attraverso l’uso del documentario. Mentre il primo è più riflessivo e tocca il tema di una ricerca individuale, il secondo proietta un’opera corale intrisa di senso di comunità. Il dialogo tra soggettività in entrambi i film dimostra un bisogno di trascendere privato e pubblico per creare un discorso con un vocabolario comune che possa far sorgere una memoria collettiva e critica del colonialismo italiano. In questo modo, il patrimonio può diventare una chiave di lettura del presente e un mezzo per creare comunità combinando l’ambiente fisico con le esperienze personali.
Letture consigliate

C. Borelli, 2007, Asmara, Eritrea, Watertown, MA: Documentary Educational Resources
L. Cippitelli, Lucrezia e S. Frangi (a cura di), 2021, Colonialità e Culture Visuali in Italia, Milano: Mimesis
A. Del Boca, 2005, Italiani Brava Gente? Un mito duro a morire, Milano: Neri Pozza
S. Macdonald, 2009, Difficult Heritage: Negotiating the Nazi Past in Nuremberg and Beyond, London: Routledge

G. Mancosu, 2018, ‘Discourses of impegno and Italian colonial legacies: Reassessing times, spaces and voices in documentaries on (post)colonial mobility’ in Journal of Italian Cinema & Media Studies, vol. 6, no. 1, pp. 33-48
G. Mancosu, 2021, ‘Amnesia, Aphasia and Amnesty: the Articulations of Italian Colonial Memory in Postwar Films (1946–1960)’ in Modern Italy, Vol. 26, Issue 4, 387-408


In copertina: Fiat Tagliero Gas Station (1938), Asmara, Eritrea, 2005, © Caterina Borelli
NiccolòAcram Cappelletto è ricercatore indipendente in Heritage Studies. Dopo una Post-Graduate Research Fellowship presso NYUAD-Dhakira Center for Heritage Studies, si dedica al rapporto tra patrimonio, cura e arte contemporanea nel contesto dell’Italia postcoloniale.