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Radici arabe e infelici chiome

Mediterraneo
I popoli arabi sono stati considerati - e a volte si considerano, come racconta Samir Kassir - i popoli più infelici al mondo. Ma quando il "centro" del mondo passava per Il Cairo, Baghdad e Palermo, la cultura araba fecondava quella europea.
Samir Kassir, intellettuale libanese, giornalista e storico, è autore del testo che qui introduce: L’infelicità araba (Einaudi 2006), il cui secondo capitolo titola “Come la cosa meglio ripartita del mondo arabo sia l’infelicità”. Kassir fotografa lo stato d’impasse in cui versano i paesi arabi.

L’Egitto, a partire dalle sue profonde disuguaglianze economiche, maturate attraverso il trentennale governo di Mubarak, superato solo da quello di Mohamed Ali Pasha (43 anni di governo, dal 1804 al 1848); impasse che non cambierà dopo le rivoluzioni: cade Mubarak e il popolo torna al voto; salgono al potere i Fratelli Musulmani, spaventoso accadimento per noi occidentali, e forse anche per molti egiziani, ma, si sa, questo è il gioco democratico, la dittatura della maggioranza, il silenziamento della minoranza; anche Morsi, così democraticamente eletto, pare non andar bene ai vicini del nord del Mediterraneo che preferiscono invece la dittatura militare di Al Sisi alla volontà del popolo egiziano. La Libia, congelata in 35 anni di gheddafismo prima di cadere nell’attuale guerra civile che ancora la lacera. Il Marocco, falsamente democratico e guidato in realtà dal Makhzen, il potere occulto che si cela dietro il potere democraticamente eletto; e dal re come re, nelle sue vesti di capo delle forze armate e soprattutto Amir al munir, principe dei credenti, diretto discendente del profeta. La Tunisia, stretta in una morsa poliziesca dopo gli attentati verificatisi non per caso dopo lo scoppio delle rivolte del 2011. E l’Algeria, miglior esempio di infelicità araba: il socialismo di Boudienne, capo di Stato maggiore delle Forze militari del Fronte di Liberazione Nazionale, sfociò presto nella dittatura militare, non facendo altro che arricchire la casta legata al potere. Se ci rivolgiamo poi al Mashrek non resta che guardare le macerie della Siria, dopo anni di stagnante baathismo; l’Iraq, “focolaio d’instabilità”; la Palestina, prigione a cielo aperto, sottomessa al potere arrogante di Israele, appoggiato dagli Stati Uniti d’America; infine i Paesi del Golfo, dove “l’oro nero”, come scrive Kassir, “nell’arco di due generazioni ha stravolto società fino ad allora ai margini dello sviluppo”: in equilibrio instabile tra architetture degne di Chicago, l’immorale ricchezza dei circa settemila principi della famiglia Saud e la povertà del popolo; a far da collant a queste due estremità, il discorso religioso, che spiana la strada che dalla moschea della Mecca conduce all’Hotel Hilton.

Eppure, non sempre questa è stata la storia dei popoli dell’Islam e l’Islam stesso non veicolava, come oggi, immagini di oscurantismo ed estremismo, ma al contrario, era fonte di civiltà e dialogo. Ne è emblema l’Âge d’or de l’Islam, dalla traversata nel 711 di Amazigh Tarik dello Stretto di Gibilterra fino alla caduta di Granada nel 1492, quando la cultura arabo-musulmana regnava su tutta l’Europa del Sud e la fecondava.

Una memoria storica condivisa, un mediterraneo non inteso come un feticcio regionale, ma come incontro di civiltà.

I tre affluenti del Mediterraneo

Ahmed Moatassime, profondo studioso del Maghreb, abitante delle due rive del Mediterraneo, in Langages du Maghreb face aux enjeux culturels euro-méditerranéens (L’Harmattan, 2006), descrive il Mediterraneo come un grande fiume irrigato costantemente da tre affluenti: umano, spirituale e interculturale. La bellezza del suo testo merita di essere raccontata. Dall’affluente umano sgorgano le vite delle antiche civiltà: i sumeri che nell’Iraq del IV sec. a.C. sono sorgente, gli egiziani, i fenici, i cartaginesi, i persiani e ancora la civiltà ellenica del V sec. a.C. che irrigherà la civiltà arabo-islamica e la latinità; l’affluente arriverà così alla foce del Mare Nostrum della romanità a partire dal 31 a.C. sino alla fine del IV sec. d.C. Popoli che hanno segnato il Mediterraneo con il loro genio creatore.

L’affluente religioso, poi, raccontato come si recita una preghiera. In principio fu Abramo; nel XIX sec. a. C.; egli attraversò il deserto dalla Mesopotamia alla Palestina. Abramo fu il primo a fare appello all’unità divina. Così poi Mosè, che dall’Egitto condusse il suo popolo alla terra promessa. Una nuova religione, il giudaismo, qui ebbe i suoi natali prima di diffondersi sulle rive mediterranee. Tre secoli dopo su queste stesse terre fece la sua comparsa Gesù Cristo, fondatore del cristianesimo. E la seconda grande religione monoteista vide l’alba. Grande sarà la sua gloria nel mondo dominato da Roma. Nel VII sec. ancora la terra di Palestina, e di Gerusalemme, divenne terra santa per la terza religione monoteista, l’Islam. Maometto fu l’ultimo profeta dopo Abramo l’amico di Dio, Mosè interlocutore di Dio, Gesù anima di Dio.

L’ultimo affluente, in questo scorrere di acque, è l’affluente interculturale. L’Islam è sì inteso come una religione, ma anche come progetto di civiltà; esso feconderà la terra d’Europa, la quale fiorirà con la sua Rinascenza. «Une interculturalité spatiale allant de l’océan Atlantique aux confines de la Chine et de Saragosse jusqu'à Samarkande. Elle passe ainsi par Cordoue, Fés, Kairaouan, Palerme, Antioche, Damas, Le Caire et Bagdad [..] capital lumineuse du monde musulmane», scrive Moatassime. È il tempo della fioritura delle arti e delle scienze; della “BeÏt -Al-Hikma”, la Maison de la Sagesse, la più antica di un modello di biblioteca, centro di ricerca e traduzioni che si svilupperà in Medio Oriente a partire dagli inizi del IX sec.; la lingua araba divenne la lingua franca del Mediterraneo, ancor prima della nascita delle lingue europee. Importanti pensatori abitavano questo tempo mediterraneo: seduti alla tavola del confronto, il filosofo ebreo Maimonide e il filosofo musulmano Averroè comunicavano all’interno di una stessa prospettiva umanista e consacravano così, per l’eternità, l’immagine di un’Andalusia terra dell’Islam del XII secolo dove ancora convivevano cristiani, musulmani ed ebrei.

Al Idrisi, Averroé, Ibn Battuta e Ibn Khaldun: padri fondatori di una storia mediterranea

Precisi tempi storici e definiti volti si fanno largo nel procedere della mia narrazione.

Nel nord Africa e nella Spagna musulmana dal 909 fino al 1117 a governare furono i Fatimidi, una delle più importanti dinastie sciite ismaelite; dalla Tunisia espansero il loro dominio in tutto il nord Africa arrivando fino in Sicilia. Grandi promotori delle scienze e delle arti, di cui restano segni in Sicilia e in Egitto, quale ad esempio la prestigiosa università del Cairo. Ma è già a partire dal 827, anno della conquista musulmana, che la Sicilia, dove accanto ad arabi e berberi convivevano ebrei e cristiani, divenne un importante centro di commercio mediterraneo: mercanti spagnoli, magrebini, provenienti da Napoli, Amalfi e Pisa popolavano la città. Palermo era una tappa importante per i pellegrini che dall’Andalusia andavano verso la Mecca. In una guerra durata dal 1057 al 1091, la Sicilia passò sotto il governo Normanno di Ruggero I. La popolazione siciliana era a quel tempo estremamente variopinta dal punto di vista linguistico e religioso: musulmani di lingua araba, greci bizantini, latini e arabi cristiani. Già durante l’epoca musulmana, Palermo venne descritta dal geografo Ibn Hawqal, proveniente dalla Mesopotamia, come una delle più belle metropoli dell’Islam mediterraneo, con le sue 300 moschee e il suo mélange culturale. Nonostante l’insorgere della nuova epoca normanna, la persistenza della cultura arabo-islamica diede vita a magnifici sincretismi artistici. Nel 1112 salì al trono Ruggero II, che trasferì la capitale da Messina a Palermo, dove al tempo la maggioranza della popolazione era musulmana.

Personaggio di spicco di questo periodo era il geografo marocchino Muhammad Al Idrisi (1099 – 1165). Nacque probabilmente a Sebta e venne presto invitato alla corte di Ruggero II, a Palermo, dove fu incaricato di realizzare una raccolta di carte geografiche che prese successivamente il nome di “Il libro di Ruggero”, detto anche “Kitab Nuzhat al-musht`aq fi-ikhtir`aq al-af`aq”, ossia “Libro dei divertimenti per colui che desidera attraversare il mondo”. Nel 1154 realizzò un planisfero, la “Tabula Rogeriana”, una delle più importanti mappe del Medioevo. Assieme a Al Idrisi, la corte palermitana vantò un incredibile numero di poeti, artisti, letterati, ingegneri, scienziati e matematici coinvolti in uno scambio culturale che parlava il greco, il latino e l’arabo.

Nel prologo del Kitab, viene raccontata la volontà di Ruggero II di saperne di più circa i territori su cui estendeva il proprio dominio, considerando le carte del tempo (arabe e greche) poco soddisfacenti. Per questo il sovrano richiamò a corte i viaggiatori, al fine di completare le informazioni dei sapienti. Dopo aver terminato il lavoro di verifica, Ruggero fece imprimere questo modello, di cui il libro rappresenta una sorta di commentario, su di una sfera d’argento puro del peso di “400 libbre italiane”, andata perduta. Essa potrebbe essere l’originale del mappamondo circolare che accompagna ogni manoscritto, di cui oggi abbiamo a disposizione solo dieci esemplari. Di questi dieci, sei contengono all’inizio una rappresentazione del mondo in mappa circolare. Agli artigiani che realizzarono la sfera, il compito di rappresentare sette climi, paralleli all’equatore (quelli che oggi chiameremmo paralleli), suddivisi in dieci sezioni longitudinali da est a ovest in cui il meridiano zero è rappresentato dalle isole Canarie che, al pari del modello di Tolomeo, costituivano il limite occidentale del mondo abitato. Si ricordi che il modello tolemaico era a quel tempo il modello di riferimento e che la cultura ellenistica venne diffusa nel mondo proprio grazie agli arabi: la principale opera di Tolomeo, il Trattato matematico, viene infatti meglio ricordato come Almagesto, ossia la sua versione in arabo poiché proprio in lingua araba l’opera venne principalmente diffusa in Europa.

Il mondo veniva così diviso in settanta sezioni, unendo le quali si otteneva una carta rettangolare del mondo.
La Sicilia è per esempio descritta nella sez 2 del clima IV , dal titolo “Isole del Mediterraneo”
La Sicilia è per esempio descritta nella sez 2 del clima IV , dal titolo “Isole del Mediterraneo”
Perché l’importanza delle mappe?  Poiché è la mappa che fa il territorio e non viceversa!
Perché l’importanza delle mappe? Poiché è la mappa che fa il territorio e non viceversa!
Franco Farinelli, nel suo testo 

Crisi della ragione cartografica (Einaudi, 2009), ricorda come al tempo di Giustiniano Imperatore, il termine “territorio” si riferisse all’estensione che ricadeva sotto la giurisdizione del magistrato; esso era dunque definito dall’atto di esercitare un potere, dalla produzione della paura. Aveva dunque un'accezione politica. Il termine veniva fatto discendere allora non dalla terra, come si trova ad esempio nelle Etimologie di Isidoro da Siviglia, uno dei testi più diffusi del Medioevo, ma da terrore: terrere (lo spaventapasseri, nella latinità si chiamava infatti territorium). Per capire come la mappa rappresentasse e determinasse al contempo i valori culturali e politici dei tempi a cui appartenevano, si pensi, ad esempio, che le prime mappe della cristianità avevano al centro, coincidente con Gerusalemme, la figura del Cristo.

Importantissimo fu poi il passaggio dalla sfera alla mappa, il piano. Ciò che cambiava era il rapporto tra l’immagine e lo spettatore: uno spettatore immobile, davanti ad una mappa sul piano, mobile attorno ad una sfera. Al Palazzo vecchio di Firenze, si ha la possibilità di vivere i due momenti in simultanea: nella sala delle carte geografiche, le pareti sono coperte da mappe, al centro, il globo, e lo spettatore/la spettatrice, hanno la possibilità di muoversi come pellegrini danteschi tra le tavole e il globo.

Dopo Ruggero II, le corti di Guglielmo e di Federico II, sulla scia del mecenate precessore, si distingueranno per il carattere cosmopolita e per aver dato avvio alle prime importanti generazioni di traduttori. Al Idrisi scriveva in arabo, una lingua che Ruggero conosceva perfettamente. Nel XII secolo, nonostante la progressiva riconquista dei territori tramite le Crociate, che porranno fine a questo clima di scambi di lingue e saperi imponendo il modello unico dell’escatologia cristiana, la lingua araba restava ancora la lingua delle scienze. Paradossalmente, con le imprese coloniali, le lingue europee si sarebbero imposte proprio come lingue del progresso e delle scienze, con ciò giustificando la loro egemonia sulle lingue locali.

Con la conquista di Sigilmassa in Marocco nel 1055 da parte di Ibn Yāsīn, emiro berbero della tribù dei Lamthūna (antenati dei tuareg), gli Almoravidi presero il potere e regnarono fino al 1147 quando gli Almohadi conquistarono Marrakesh. Molto più ortodossi rispetto ai primi, di confessione malikita, dunque sunnita, professavano il ritorno agli originali principi dell’Islam.

Con gli Almohadi fiorì l’architettura: di questo periodo sono infatti la kasbah di Marrakesh, il minareto della moschea di Siviglia, la famosa torre Giralda, la moschea Kutubyya di Marrakesh e la torre Hassan a Rabat.

Esponente culturale di questo periodo è Averroè, nome completo Abū l-Walīd Muhammad Ibn ʾAhmad Ibn Rušd (1126 –1198); di origine berbera, musulmano andaluso proveniente da una famiglia di importanti giuristi, è considerato uno dei più importanti filosofi del medioevo nonché grande sostenitori della filosofia aristotelica contro il posizionamento conflittuale di Al Ghazali: quest’ultimo, nella sua opera più famosa, L’incoerenza dei filosofi, muoveva contro il pensiero filosofico accusandolo di esser contrario ai precetti dell’Islam. Averroè, al contrario, sosteneva come filosofia e Islam non fossero affatto in opposizione e scriveva in risposta l’opera L’influenza dell’influenza dei filosofi. Per Averroè, religione e filosofia speculativa erano accumunate da un obiettivo comune: la ricerca e la rivelazione della verità. Esperto di medicina, divenne medico privato del califfo e giurista; autore della Bidaya, un trattato giuridico che si rifaceva alla legge coranica: in quest’opera egli cercava di trovare una spiegazione valida delle differenze di opinione dei giuristi a partire dalle fonti classiche del diritto; si interrogava dunque sull’autenticità degli hadith;valutava l’opportunità di intendere un testo in senso letterale o metaforico; analizzava le circostanze che inducono a emettere un’opinione giuridica; era sostenitore di un’indagine razionale che conducesse ad un’indagine ermeneutica dei testi sacri. Scriveva poi un commento alla repubblica di Platone e all’Etica nicomachea di Aristotele col fine di insegnare ad una dinastia illuminata, gli Almohadi, come costituire e reggere uno stato sui fondamenti razionali della filosofia. Il Commentario alla Repubblica rende manifesto come la filosofia di Platone sia perfettamente adeguata al progetto politico almohade: le virtù dello stato giusto sono saggezza, ossia giusta comprensione delle leggi, coraggio di conservare le proprie convinzioni, temperanza ossia il giusto mezzo e la giustizia. Sulle orme di Platone, Averroè condannava la proprietà privata e sosteneva che la classe dirigente debba esser formata da filosofi. Un passaggio in più rispetto a Platone è l’uguaglianza necessaria tra uomo e donna. Massimo Campanini, uno dei maggiori esperti di Averroè in Italia, scrive: “leggere Averroè significa da una parte penetrare nel cuore del pensiero arabo-islamico, dall’altra in quello occidentale […] leggere Averroè implica munirsi degli strumenti della filosofia greca di Platone e Aristotele ma anche degli strumenti della teologia e del diritto islamici. Durante il medioevo, in Oriente, Averroè non ebbe successori immediati: venne a lungo dimenticato per poi essere esaltato in epoca contemporanea come maestro del razionalismo” (Averroè, 2007, Il Mulino).

La fama di Averroè in occidente è legata soprattutto ai Commenti ad Aristotele. Dante lo cita nel purgatorio definendolo “colui che il gran commento feo”. Egli ha avuto il merito di aver aperto la strada ad un più libero respiro del pensiero, sottraendolo alle costrizioni dogmatiche. Boccaccio, Cavalcanti, Dante subirono il fascino dell’averroismo. Al contrario, nel 300 e 400, la sua filosofia subì un declino: il Petrarca, ad esempio, parla di Averroè come cane rabbioso e attraverso lui condannava l’Islam, la filosofia e le eresie che erano contro la vera fede. Nel XVI e XVI la filosofia di Aristotele, e le letture di Averroè come imprescindibili, si affermano grazie soprattutto al lavoro dell’Università di Padova e Bologna, fino a influenzare il pensiero di Giordano Bruno (1548 – 1600), colui che andrà al rogo pur di non contraddire le sue idee.

Altro personaggio di spicco è Ibn Battuta (1304 – 1368). Al suo tempo governavano nel Maghreb differenti dinastie locali, i Merinidi in Marocco, i Mamelucchi in Egitto, gli Hasfidi in Tunisia, gli Zayyanidi in Algeria, tutti in lotta tra di loro per l’egemonia nella regione, in seguito alla decadenza della dinastia Almohade, verso la metà del 1200, già indebolita dalle numerose sconfitte ricevute nella spagna musulmana. La sua opera più famosa è la Rihla, cioè la narrazione dei suoi viaggi. Considerato il Marco Polo del mondo musulmano, partì da Tangeri nel 1325. Dopo aver attraversato l’Africa del Nord, giunse all’Egitto dei Mamelucchi, visitò la Siria e la Palestina e compì il suo pellegrinaggio alla Mecca; l’Iraq e la Persia e ancora l’Arabia fino all’Asia, Costantinopoli, l’India, le Maldive, il Bengala, per poi tornare in patria e scendere fino al Sudan. Molto è stato detto circa l’inattendibilità delle fonti e la veridicità dei viaggi compiuti, dati alcuni errori di datazione, ad esempio, o alcune somiglianze con altre opere esistenti. Ciò non toglie l’alto valore documentario dell’opera che costituisce ancora oggi una delle fonti più preziose per la storia, la sociologia e l’antropologia del tempo. L’opera di Ibn Battuta non è una guida turistica; è, al contrario, un racconto personale in cui l’io narrante è il filo conduttore e la memoria si mescola ai racconti meravigliosi al pari delle mille e una notte. Il suo maggior interesse erano le genti che abitano la Dar al Islam: arabi, berberi, turchi, mongolo, andalusi, comali, persiani, indiani; citava dottori di legge e mercanti, mistici, sovrani, donne, bambini, schiavi e cantanti. L’opera restò sconosciuta al di fuori del Medio Oriente fino al XIX sec., quando due studiosi europei, J. G. Kosegarten e S. Lee, ne pubblicarono alcune parti tradotte. Nel 1853-58 a Parigi uscì la prima versione integrale a stampa, per mano di Defremery e Sanguinetti, basata sui cinque manoscritti della Biblioteque Nationale sottratti all’Algeria durante l’occupazione francese.

Infine Ibn Khaldun (1332 – 1406), nome completo Walī al-Dīn ʿAbd al-Rahmān ibn Muhammad ibn Muhammad ibn Abī Bakr Muhammad ibn al-Hasan al-Hadramī. Fondatore della sociologia, autore della Muqaddima, imponente opera di sociologia e di filosofia politica. In realtà, essa altro non è che l’introduzione ad un’opera molto più ampia di più di mille pagine, titolata “Il libro degli esempi” e al suo interno è introdotta la metodologia utilizzata e che diverrà la base delle metodologie sociali. Massimo Campanini lo definisce come “uno studioso freddamente realistico e materialista”, ne sottolinea il grande rigore scientifico e la coscienza critica nel momento della decadenza del pensiero islamico. Perché decadenza? Notiamo queste due parabole contrarie: da una parte l’Europa, parabola ascendente che la porterà al Rinascimento e poi alla rivoluzione industriale; dall’altra il mondo islamico che inizia quello che possiamo chiamare “il suo Medioevo”. È una decadenza, questa, che non riguarda il dominio economico, militare ecc., quanto l’originalità del pensiero islamico. Un’ipertrofia del diritto che ha fagocitato le scienze speculative a danno dell’originalità del pensiero islamico. Arrivato in Egitto, Ibn Khaldun sperava che i Mamelucchi potessero essere la dinastia che avrebbe potuto rinnovare la grandezza della cultura islamica, cosa che, sappiamo, non accadde. Un intero paragrafo della Muqaddima è dedicato proprio al perché le dinastie decadono, presentando una visione ciclica della storia, meccanismi che ritornano, inevitabilità del declino. Il pensatore della crisi, così viene definito. Uno dei concetti al centro di questo paragrafo è l’assabya, lo spirito di gruppo, la solidarietà tribale, come motore della storia. Ibn Khaldun è laico però crede che il sentimento religioso abbia rafforzato l’assabya pre-esistente, quella “volontà di morire gli uni per gli altri”. La Badua è la società ancora non completamente sedentarizzata, come alla sua prima fase economica, una fase di sviluppo embrionale in cui la spada prevale sulla penna. In questo gruppo ridotto, legato da assabya, il capo è uno tra gli altri ed è in questo stadio della società che nasce il potere. Essa poi si sviluppa, elabora gli emblemi del potere, fioriscono le arti e la scienza; l’assabya s’indebolisce e inizia la decadenza quando il sovrano non è più uno fra gli altri, diviene sempre più potente e circondato da mercenari.

Il recupero di questi autori è stato un percorso contrastato. A fine '800, ad esempio, Ernest Renan, filosofo francese, affermava che i musulmani non fossero in grado di pensare, eccezion fatta per Averroè poiché non credente. Oggi si considerano i popoli arabi come i più infelici del mondo, una cultura così essenzializzata tra estremismi religiosi, impasse politici e povertà economica e culturale, dimenticando come le origini della modernità europea siano profondamente radicate nella cultura araba del passato, nelle epoche in cui l’incontro di civiltà era considerato una ricchezza.
Lucia Turco è dottora in Studi Internazionali presso l'Università L'Orientale di Napoli e in Sociologia presso l'università Aix-Marseille. Si interessa di linguaggi e traduzioni mediterranee. Oggi aspetta un bimbo e raccoglie castagne in autunno.