Oggi le imprese nepalesi detengono la gran parte del mercato delle spedizioni sull'Himalaya, che ha assunto una forte connotazione turistica e non è più esclusivo appannaggio di pochi alpinisti. Ma si può dire davvero che i lavoratori nepalesi traggano beneficio da questi nuovi assetti? E che ruolo gioca oggi il «mito fondativo» dello sherpa come portatore pacifico e ancillare rispetto all'esploratore occidentale?
Il termine «sherpa» è di per sé interessante perché ha un senso duplice. Sebbene esso indichi originariamente un gruppo etnico (proveniente dal Tibet orientale e installatosi nelle montagne nepalesi) il suo impiego ha progressivamente assunto i tratti di una professione: quella del «portatore» di grandi carichi necessari ad allestire i campi base delle spedizioni alpinistiche. Sherpa è diventato il nome comune con cui si indica l’accompagnatore in alta montagna di spedizioni che hanno storicamente implicato una pesante logistica: trasporto di cibo, tende, corde e bombole di ossigeno, lungo rotte spesso difficilmente percorribili a dorso di animale. Questo slittamento semantico del termine etnico verso uno specifico settore del lavoro è dunque il prodotto di un incontro con l’occidente, che ha portato con sé un insieme di ambiguità. Da un lato, la figura dello sherpa è stata in un certo senso essenzializzata: presentata come esempio di semplicità, onestà morale, coraggio, fedeltà e caratterizzata dalla formidabile capacità di resistenza all’alta quota. Soprattutto, si tratta di una figura secondaria e ancillare a quella dell’esploratore occidentale. Il caso paradigmatico è la prima salita all’Everest (1953) da parte di Sir Edmund Hillary e di Tenzig Norgay, di etnia sherpa, il quale non avrebbe mai ricevuto lo stesso riconoscimento istituzionale del compagno britannico. D’altro canto, lo sguardo occidentale bonario verso le popolazioni nepalesi tradisce un lessico coloniale e dal tono civilizzatore. Significativamente, lo stesso Hillary definisce nel suo resoconto High Adventure (1955) gli sherpa come coolies: un termine profondamente radicato nella storia imperiale e legato alle forme di lavoro coatto impiegate per garantire lo sfruttamento coloniale anche dopo l’abolizione della schiavitù. Everest è del resto il nome dato al Chomolungma (nome sherpa) dai coloni britannici. L’ascesa invernale del K2 da parte di una cordata nepalese questo gennaio potrebbe farci pensare che le attitudini sono cambiate e che la popolazione locale si è ora pienamente appropriata di quel fattore «esogeno» che era l’alpinismo occidentale. Rispetto agli anni ’50, il mondo dell’himalaysmo stesso è mutato profondamente. L’Everest ha perso parte di quel carattere di inaccessibilità che lo caratterizzava con lo sviluppo massivo delle compagnie commerciali a partire dagli anni ’90. Viene cioè offerta la possibilità ad alpinisti dilettanti e spesso inesperti di essere accompagnati sul tetto del mondo, purché disposti a pagare un prezzo che può mediamente variare tra i 30mila e i 90mila dollari a testa. Gli sherpa detengono oggi il 70% del mercato delle spedizioni e sono attori ineludibili di un’industria alpinistica e turistica che copre l’8% del pil nepalese e le cui royalties derivanti dal rilascio dei permessi di scalata ammontano a 11mila dollari per ogni cima.
L’esplosione dell’alpinismo commerciale in Nepal ha costantemente fatto discutere per diverse ragioni. Negli ambienti di montagna si è spesso dibattuto sull’opportunità o meno di (letteralmente) trascinare clienti inesperti verso la cima secondo una logica puramente commerciale. La via normale all’Everest si è affollata fino a diventare una fila di centinaia di clienti che arrancano sul ghiacciaio. Diverse volte, gli imbottigliamenti di turisti lungo le corde fisse hanno rallentato la salita causando numerose morti, come nel caso della tragedia del 1996 raccontata da Krakauer in Aria Sottile o ancora nel 2019. Dietro a questo interrogativo sul senso generale della pratica alpinistica ce n’è però uno più strutturale, relativo alle condizioni di lavoro nell’industria himalayana. Oggi, circa un milione di lavoratori nepalesi dipende direttamente o indirettamente dall’industria del turismo. La logistica delle spedizioni presuppone una gerarchia lavorativa articolata che include portatori di carichi, capi reparto (sidrar), cuochi, guide (climbing sherpa). Sebbene il termine sherpa sia spesso utilizzato per indicare l’insieme di lavoratori locali, buona parte dei portatori attuali non appartengono più a questa etnia. Nel corso dei decenni si è verificata un’ascensione sociale che ha condotto molti nepalesi sherpa ad acquisire la proprietà dei rifugi (lodge) dove fanno tappa i turisti durante i trekking, a specializzarsi come guide alpine e in generale ad affrancarsi dal ruolo di portatori. Le ragioni di questa ascensione sociale sono disparate, includono le reti di contatti stretti con occidentali così come la collocazione geografica dei villaggi sulle rotte escursionistiche. Tuttavia, così come nel caso dei portatori, il salario rimane la principale ragione per la quale larga parte degli sherpa lavorano nell’industria alpinistica delle spedizioni, dove è possibile guadagnare fino a 3mila dollari a stagione, contro i 700 dollari di uno stipendio medio annuo. Il mestiere di sherpa climber è ambito ma pericoloso, e molti accettano di lavorare per accumulare abbastanza denaro affinché i figli non debbano fare altrettanto. L’organizzazione della tanto ambita scalata della via normale all’Everest richiede una quantità di forza-lavoro non indifferente, oltre che di capitali.
Il campo base (5364 metri) è già di per sé una sorta di città di tende, dotata di un proprio «municipio» che si occupa, ad esempio, di stoccare i rifiuti e trasportarli a valle a dorso degli yak. I clienti pagano per un’esperienza di avventura e comfort che può rasentare il grottesco, includendo il caffè mattutino servito direttamente «a letto» e la presenza di televisioni nelle tende comuni. La salita verso la cima prevede poi quattro campi intermedi: l’altitudine impone la necessità di acclimatarsi e salire progressivamente per evitare l’edema cerebrale, trasportando bombole di ossigeno e tutti i materiali necessari alla progressione.
L’insieme di questa logistica è lavoro, ma soprattutto è lavoro rischioso. Il ghiacciaio del Khumbu che divide il campo base dal Campo 1 è caratterizzato da un sistema di seracchi (enormi blocchi di ghiaccio destinati a cadere) e deve essere attraversato alla massima velocità. Gli sherpa hanno il compito di installare l’insieme di corde fisse e scale metalliche necessarie a ridurre il tempo di permanenza dei clienti delle imprese commerciali. Il 18 Aprile 2014, la caduta di un seracco su questo tratto della via (Khumbu icefall) ha provocato una valanga, uccidendo 16 sherpa impegnati nell’installazione delle corde fisse per conto delle compagnie commerciali Adventure Consultants e Alpine Ascents International. A seguito dell’incidente, gli sherpa presenti al campo base hanno proclamato uno sciopero – destinato a far saltare la stagione alpinistica commerciale – e rivendicando migliori condizioni di lavoro. Tra le rivendicazioni infine accettate dal ministero del Turismo: assicurazioni sugli incidenti e sulla vita, creazione di un fondo di sostegno attraverso i proventi delle royalties sui permessi di scalata, pagamento dell’istruzione per i figli degli sherpa deceduti e la formazione professionale per le vedove. Si è trattato però di vittorie parziali: l’indennizzo alle famiglie resta derisorio (40mila rupie, 350euro), le casse di sostegno sono costituite da una percentuale inferiore a quella richiesta e la rivendicazione di pagamento anche a stagione annullata è stata direttamente respinta. Il ministero ha inoltre rifiutato la richiesta di trasportare in elicottero i materiali per il Campo 1 (riducendo così il tempo di lavoro sulla Khumbu icefall) adducendo che questo avrebbe compromesso l’esperienza dei turisti. L’industria alpinistica ha spesso sostenuto le rivendicazioni degli sherpa, eventualmente accusando la burocrazia nepalese di non redistribuire l’estrazione fiscale sulle spedizioni, ma anche denunciando le minacce di ritorsione che gli scioperanti avrebbero rivolto ai «crumiri». Il caso del 2014, molto mediatizzato, ha imposto all’attenzione un problema forse strutturale dell’industria alpinistica stessa, ossia quanto essa sia sostenibile in assenza di un serbatoio di lavoratori pronti a rischiare la vita per il salario.
Nel corso degli anni il «mito fondativo» della cordata Hillary-Tenzing sulla vetta dell’Everest nel 1953, spesso presentato come simbolo di fratellanza, ha rivelato le sue inconsistenze. Ancora nell’aprile 2013, l’alpinista di fama mondiale Simone Moro faceva riferimento a questo mito, raccontando sbalordito di aver rischiato il linciaggio da parte di un gruppo di sherpa in seguito a un diverbio avuto durante la salita al Campo 3 dell’Everest.
Sicuramente l’immagine di accompagnatore fedele e remissivo che aveva caratterizzato la storia precedente ha cambiato di segno. Le popolazioni locali hanno piena coscienza della quantità di capitali in circolo nelle vene della natura. Interventi di beneficienza occidentale – come la costruzione di scuole, ospedali o istituti di formazione per guide alpine nepalesi – hanno sempre cercato di promuovere un discorso di conciliazione e cooperazione. In questa stessa ottica si applaudono i successi sportivi e commerciali della popolazione sherpa. Tuttavia, né i legami di amicizia personale (di cui trabocca la letteratura alpinistica) né la formazione di una borghesia nazionale grazie all’industria del trekking sembrano veramente tematizzare la struttura stessa di questo sviluppo economico estrattivo: il suo impatto sociale e il modo in cui essa si è articolata a strutture hinduiste di casta preesistenti. Del resto, il mestiere di portatore non è scomparso e la miseria rimane la sua principale agenzia di reclutamento. All’apertura di ogni stagione alpinistica molte campagne del sud si svuotano e i contadini con scarso accesso alla terra si recano a lavorare per le spedizioni, soprattutto nei trekking in bassa quota. Sebbene questi giovani siano in larga parte di etnia rais, tamang e magars, spesso si fingono sherpa per sfruttare strategicamente l’immaginario che anni di intervento occidentale hanno tessuto. Essi costituiscono nondimeno un proletariato che beneficia solo marginalmente dei proventi dell’industria alpinistica, radicalmente sottopagato ed escluso dai sindacati di categoria come la Union of Trekking and Rafting Workers (Unitrav). Diverse inchieste antropologiche hanno sottolineato come questi migranti stagionali siano costantemente stigmatizzati secondo formule che potrebbero ricordare la classe operaia londinese ottocentesca: accusati di essere colpevoli della propria povertà perché dediti all’alcol, al gioco d’azzardo e alla procreazione incontrollata.
Inutile dire che, dal basso dei miei vagoni di metropolitana e cime modeste, anch’io come tanti coltivo il malcelato desiderio di andare a vedere i giganti nepalesi. L’indiscutibile fascino di questo «altrove» dovrebbe però essere attraversato da un tentativo di consapevolezza. Di fatto, «facchini e braccianti» della montagna costituiscono la colonna vertebrale di un paesaggio offerto allo sguardo visitatore: un’alterità che l’industria alpinistica cerca di «ridurre» e al tempo stesso «mettere in scena». Dal momento che la natura diviene uno spazio di valorizzazione capitalistica proprio in quanto «selvaggia», la lente del lavoro è uno strumento utile a mettere in dubbio questa (stupenda) oggettivazione e rintracciarvi la trama di rapporti sociali che la costituiscono. La costruzione stessa della figura «sherpa» attraverso una dialettica dai tratti orientalisti è in qualche modo la risultante di questo insieme di rapporti storici. Diversi interrogativi si aprono. In primo luogo, le ambiguità del turismo globale nord-sud: vettore di sviluppo o macchina riproduttrice di disuguaglianze? Il caso nepalese spinge a riflettere su come l’espansione economica legata al turismo non implichi necessariamente l’appropriazione collettiva della ricchezza generale, così come l’ascesa sociale di determinati settori sociali corrisponda a sempre nuove organizzazioni delle gerarchie di sfruttamento.
Foto: Laurence Tan
Martino Sacchi (1989) ha terminato un postdoc in storia globale del lavoro all'Université de Nanterre ed è appassionato di montagna.