Il 10 aprile 2022 si è tenuto il primo turno delle elezioni presidenziali in Francia, che ha visto passare al ballottaggio il presidente uscente Emmanuel Macron con il 27,84% dei consensi, e la leader del Rassemblement National Marine Le Pen, con il 23,15%. Dalla Tunisia e dall’Italia, abbiamo guardato a queste elezioni e guardiamo al ballottaggio del 24 aprile con sconforto, non solo perché Jean-Luc Mélenchon, il candidato della France Insoumise, si è fermato a meno di due punti percentuali da Le Pen: il discorso politico francese, infatti, è sempre più centrato su posizioni razziste, eurocentriche e neoliberiste, le cui conseguenze sono evidenti anche nel rapporto tra l’Esagono e le sue ex colonie.
Dalla Tunisia e dall’Italia, i luoghi dove viviamo e lavoriamo, abbiamo guardato a queste elezioni con sconforto: l’immagine della Francia pioniera dei diritti umani sicuramente è stata messa in discussione negli anni dalla critica postcoloniale, decoloniale e femminista. Tuttavia, soprattutto per chi arriva dai Sud globali, la Francia è anche quel luogo dove il lavoro deɘ attivistɘ ha fatto sì che ci fossero delle leggi ospitali per chiunque, indipendentemente dalle proprie origini, anche se poi queste non sempre vengono messe in atto. Il sogno di una Francia generosa e ospitale è scomparso o sta per scomparire, lasciando il posto a fascisti che si dilettano nel creare divisione e odio.
Ma perché parliamo di sconforto noi, osservatrici della scena politica francese dall’esterno?
Emmanuel Macron si è spesso definito «né di destra né di sinistra»: peccato che durante il suo quinquennio abbia condotto una politica economica ferocemente neoliberale, prendendo delle posizioni molto simili alla destra su temi come immigrazione, sicurezza, pensioni e laïcité. Appena eletto nel 2017, aveva sostenuto la politica d’accoglienza dei migranti portata avanti da Angela Merkel, affermando di voler mettere anche l’Europa en marche verso una maggiore solidarietà nel gestire la crisi migratoria. Tuttavia, ha finito per unirsi all'estrema destra sull’espulsione degli stranieri, forzando i paesi di provenienza a «riprendersi» i propri cittadini. Ha ridotto poi la concessione dei visti per i cittadini provenienti dai paesi del Maghreb, con un restringimento del 30% per la Tunisia e del 50% per Marocco e Algeria: se questi ultimi hanno condannato fermamente le nuove disposizioni, il presidente della Tunisia ha affermato solamente che «si rammarica della decisione». Niente di strano, dato che lo stesso presidente tunisino continua a chiamare la colonizzazione francese in Tunisia un «protettorato».
Inoltre, sotto la leadership di Macron, il discorso islamofobo ha raggiunto delle nuove vette: nel 2021 il governo ha approvato la legge contro il separatismo che, con l’obiettivo di colpire il cosiddetto «islamismo radicale», ha aumentato il controllo sui luoghi di culto e sulle associazioni musulmane, alcune delle quali sono state forzate a chiudere. La legge, criticata anche da Amnesty International, tra le altre cose proibisce l’uso del velo islamico nello spazio pubblico per le minori di diciotto anni. Mentre approvava le misure più drastiche contro l’islam mai viste nell’Esagono, il governo ha anche portato avanti un attacco quotidiano contro i saperi critici che interrogano l’operato della République: la ministra dell’educazione, Frédérique Vidal, ha sostenuto che la supposta ideologia islamo-gauchista è un cancro della società che andrebbe estirpato dall’università. In un surreale confronto sulla rete televisiva France2 nel febbraio 2021, inoltre, il primo ministro Gérald Darmanin ha accusato Le Pen di essere troppo «morbida» nelle posizioni contro l’islam. La stessa Le Pen che nel corso della campagna elettorale ha sostenuto che, se eletta, avrebbe vietato l’uso del velo tout-court nello spazio pubblico, applicando delle multe a chi non rispetta la legge, e che «in nome della dignità degli animali» avrebbe proibito la macellazione halal.

Tutto questo non fa che ampliare quella che Abdelmalek Sayad ha definito «doppia assenza», ovvero un vuoto interculturale, conseguenza di una situazione intermedia e mal vissuta, un crocevia di sofferenza ed esclusione.
Le continuità dell’influenza coloniale
Dodici anni sono passati dalla rivoluzione tunisina, che lɘ tunisinɘ chiamano «la rivoluzione della libertà e della dignità» e che i media francesi continuano a chiamare «la rivoluzione dei gelsomini». Ma se il gelsomino fa pensare alla purezza e a un buon profumo, si tratta tuttavia di un profumo effimero. I governi francesi hanno sempre garantito ampio sostegno al regime di Ben Ali, con il pretesto che non volevano essere accusati di ingerenza nelle politiche tunisine. A seguito degli eventi politici del 2010, la ministra degli affari esteri Michèle Alliot Marie ha affermato che fino ad allora la Francia aveva sostenuto Ben Ali per mantenere l’ordine nel paese: in effetti, il regime di Ben Ali è servito da garanzia di stabilità politica soltanto per la Francia, che persegue i suoi interessi economici e che, da antica potenza coloniale, non è interessata ai diritti umani o alla democrazia per lɘ tunisinɘ. Per questɘ, invece, la dignità e la libertà sono una questione di vita o di morte.

Dopo continui abusi di potere, l’illusione della democrazia in Tunisia è sfumata, così come la speranza di scrivere una nuova pagina per il continente africano, speranza sulla quale il candidato di En Marche aveva costruito la sua campagna nel 2017: fino ad ora, Macron si è accontentato di dire soltanto qualche parola prudente, per salvaguardare la faccia davanti alla comunità internazionale, senza esprimere nessuna critica verso Kaies Saïed, nonostante diversɘ giuristɘ tunisinɘ siano concordi nel definire quanto avvenuto un colpo di stato. Tale comportamento sarebbe comprensibile se lo stesso Macron, in un’intervista su France 2, non avesse definito «folle e pericolosa» la proposta della sua rivale, Marine Le Pen, di cambiare la costituzione francese, affermando letteralmente che questo sarebbe l’inizio di una deriva autoritaria. Ironicamente, è quanto sta accadendo in questo momento in Tunisia, se non peggio, ma sembra che l’inquilino dell’Eliseo continui la stessa politica della Francia verso le sue ex colonie. Se la République sostiene di voler difendere la democrazia là dove questa viene rivendicata, la sua attitudine verso quanto sta accadendo in Tunisia dimostra che, in realtà, voleva difendere una democrazia su misura, appunto, dei suoi interessi.
Dov’è finita la sinistra?
L’unico candidato che, nella corsa alle presidenziali francesi, è riuscito a tirarsi fuori dalla deriva identitaria è quello della sinistra radicale: Jean-Luc Mélenchon. Il leader della France Insoumise è soprattutto riuscito a toccare, nella sua campagna, i veri problemi che riguardano non soltanto ɘ francesi: la preoccupazione popolare per lo spettro dell’impoverimento che tocca gran parte deɘ cittadinɘ e che favorisce le grandi imprese e le lobby economico-finanziarie. Così facendo, Mélenchon si è riappropriato dei valori della sinistra, in particolare l’attenzione per le persone marginalizzate. Ma la sinistra non è stata capace di passare al ballottaggio, e con la sua disfatta cadono anche le aspirazioni di chiunque sogni un mondo più giusto e più egalitario. Mélenchon aveva bisogno di circa 500 mila voti per passare al secondo turno, voti che si sono dispersi tra i vari candidati della sinistra: socialisti, ecologisti, comunisti, verdi.
Quanto è accaduto alla sinistra in Francia e in altri paesi, può far pensare che si tratti di una «sindrome della sinistra» alla disfatta. Guardare a queste esperienze, comparandole, dimostra che il problema è più largo e generale, e mostra chiaramente che l’estrema destra approfitta della dispersione dei suoi rivali, trovando in questo una grande possibilità d’espansione. Anche la sinistra tunisina, così come quella francese, ha perso un’occasione, soprattutto dopo la perdita di due se grandi icone: Chokri Belaied, assassinato il 13 febbraio 2013, e Mohamed Brahmi, assassinato il 25 luglio 2013. Essa ha perso l’occasione di riunirsi, di superare le divergenze e di impegnarsi in un programma al servizio del popolo tunisino, lasciato tra l’incudine dei partiti conservatori, il martello dei finanzieri che hanno fatto precipitare il paese in un pericoloso indebitamento e la morsa di un presidente populista dilettante che sta conducendo il paese verso l’ignoto. La sinistra tunisina, sempre più divisa, inoltre non sembra essere radicata nelle classi popolari, anzi si mostra quasi elitista quando si ostina a negare la realtà.

Nadia Chaouch è dottoranda in Scienze umane e sociali all’Università di Tunisi, in co-tutela con l’Università di Genova. Si interessa di migrazioni e femminismi.
Marta Panighel è dottoranda in Sociologia presso l’Università di Genova e attivista transfemminista in burn-out. Si interessa di femminismi contemporanei, razzismi, islamofobia.