I confini di genere, come quelli tra nazioni, sono presidiati e non avere un lasciapassare significa vivere da clandestinx, rimanere intrappolatx nelle maglie di questi reticolati: a chi spetta (e a chi no) un titolo di viaggio per muoversi liberamente entro i confini di questo mondo? Una recensione di Senza Titolo di viaggio di Filo Sottile (Alegre).
Perché quello di Filo Sottile è innanzitutto un libro politico, dove l’autobiografia irradia altre storie, perché in queste storie c’è tutta l’urgenza di prendere a picconate, collettivamente, le basi di un mondo fatto a misura dell’uomo bianco, etero, cis, normodotato, abbiente e questa urgenza mi interpella. Perché forse abbiamo bisogno di andare oltre le autobiografie e le narrazioni singole e di abbracciare la complessità di storie che rimandano ad altre storie, di pensieri fertili che danno vita ad altri innesti. In questo senso il libro di Filo è un humus in cui crescono e proliferano riflessioni continue, dove le domande chiamano altre domande e forse è qui, nel metodo, che più di tutto questo testo mi ha parlato, nel suo andare oltre il racconto autobiografico e nel farsi, pagina dopo pagina, un lavoro dal chiaro intento politico, nel porre questioni che vanno oltre i confini di genere e che si intrecciano a quelli di razza (di cittadinanza) e di classe perché i confini di genere, come quelli tra nazioni, sono presidiati e non avere un lasciapassare significa vivere da clandestinx, rimanere intrappolatx nelle maglie di questi reticolati: a chi spetta (e a chi no) allora un titolo di viaggio per muoversi liberamente entro i confini di questo mondo?
“Ciò che è selvatico, pagano, pacchiano, queer deve rimanere fuori, ai margini. Bisogna impedire che contamini il recinto dell’accettabile. All’interno dei confini può agire, parlare, mostrarsi apertamente solo chi è civilizzato, credente ortodosso, rispettoso del gusto stabilito, straight, retto, giusto. La vita “così come è” è nient’altro che una semplificazione del reale, una riduzione a una norma stabilita, l’eliminazione del molteplice. Le persone e le esperienze che non possono e/o non vogliono assoggettarsi a questa cernita vengono confinate ad altri spazi, altri mondi, altri universi.”
“Stare in una società come questa apre una serie gigantesca di problemi, di legittimità di esistere, di muoversi, di abitare. Una persona senza documenti attira fatalmente l’attenzione della burocrazia e della polizia”.
“Rossana mi fa sapere che ha informato della mia situazione una responsabile del settore biblioteche di UniTo, la quale ha detto che non si erano mai posti la questione che ci potesse essere una persona trans fra il personale. E come avrebbero potuto? Nel senso comune le donne trans si prostituiscono, fanno le soubrette, o entrambe le cose, e gli uomini trans non esistono”.
“Prima la gente mi chiedeva consigli per ogni genere di riparazione, anche su questioni di cui non sapevo nulla. Adesso la matita che passo sugli occhi e gli abiti femminili che indosso sembrano aver coperto del tutto la mia esperienza e la mia competenza”.
In Italia fino al 2015, in base alla legge 164 del 1982, la riassegnazione di sesso e genere anagrafico sui documenti era consentita solo dopo l’intervento chirurgico genitale. Nel 2015 una sentenza della Cassazione stabilisce che è possibile ottenere un cambio anagrafico aggirando l’intervento chirurgico, ma per ottenere i documenti servono un avvocato e almeno due o tre anni di attesa. L’ultima parola, poi, spetta al giudice.
Un team composto da esperti, psichiatri e psicologi elabora una “diagnosi di incongruenza” i cui costi oscillano tra i cinquecento e i mille euro, a cui si aggiungono due o tremila euro di avvocato. Nel frattempo trovare lavoro diventa sempre più complicato e si perde l’accesso a prestazioni sanitarie gratuite come il pap test.
Nel caso dell’intervento, per la legge 164 l’autodeterminazione della persona trans non è sufficiente. Poiché in Italia non è consentito operare parti del corpo sane, un giudice deve concedere il cambio anagrafico e autorizzare l’intervento dopo aver preso visione di tutta la documentazione richiesta. Capita spesso - racconta Filo - che nei centri ospedalieri specializzati le persone che vi si recano per iniziare un percorso di transizione e ottenere la prescrizione per gli ormoni tornino a casa con quella per gli psicofarmaci poiché la loro espressione di genere è ritenuta non adeguata alla transizione. Per non parlare della base profondamente binaria della legge 164, come emerge da questo pronunciamento riportato nel libro:
“[il] transessuale sul quale sia stata operata la trasformazione anatomica degli organi genitali è capace, di regola, di normali rapporti sessuali con un partner dell’altro sesso [...]”
“Qualcuno decide se darci gli ormoni, qualcuno ci spinge a fare interventi che non vogliamo fare, qualcuno può sindacare su quelli che invece desideriamo e qualcuno dà il nullaosta per mettere sui documenti i nomi che usiamo. Un armamentario di sì-no-forse calato dall’alto che continua a trattarci come errori da correggere".
“La narrazione del corpo sbagliato, ammesso sia mai stata utile, è ormai frusta e rifiutiamo anche la credenza che siano gli interventi e i farmaci a fare di noi persone trans. È la società a premere sui nostri corpi, a farceli sentire inadeguati (...) Attenzione però! Il rifiuto di questa narrazione non significa che rinunciamo alla possibilità di mutare i nostri corpi: intraprendere la terapia ormonale sostitutiva, una mastoplastica additiva o una mastectomia o un qualsivoglia intervento volto al miglioramento della performance di genere, per molte e molti di noi può rivelarsi una valida alternativa al suicidio (...). Quei mutamenti ci permettono di esistere e agire in territorio ostile, funzionano/dovrebbero funzionare/ci permettono di funzionare come un lasciapassare. In ogni caso la questione non è interventi si, interventi no: è tutta riassumibile nello slogan femminista «sul mio corpo decido io». E anche sul nostro genere spetta a noi l’ultima parola”.
“Non provo nessun piacere a dare quasi cinquanta euro al mese all’azienda produttrice del farmaco che uso ma qui è opportuno sgomberare il campo da ogni possibile equivoco. In La mostruositrans ho scritto che come persone trans, non binarie e come femministx cerchiamo soluzioni politiche e non tecnologiche al nostro disagio. Significa che i nostri nemici sono il capitale e l’eterocispatriarcato (...) in un mondo liberato potremmo disporre liberamente dei nostri corpi, delle nostre esistenze, delle nostre relazioni, senza imposizioni, senza soverchierie, senza sfruttamento (...). Adesso, qui e ora, non siamo in un mondo liberato.”
L'idolatria per la Natura e l’avversione per la sua idealistica nemesi, la Tecnologia - continua l’autrice - mimetizza appena una predisposizione al darwinismo sociale:
“il sottotesto di tutto è che il mondo che sognano - qui si rivolge in particolare a chi pontifica dai salotti o dalle tastiere- è un posto per maschi bianchi, cisgender, etero, abili, e per le loro donne, se ne accettano il dominio. Le altre soggettività o chi quel dominio lo mette in dubbio si attacchino al cazzo”
“Sembra che le persone trans non possano parlare d’altro che delle persone trans. Se una persona trans parla di depressione si dà per scontato che il coming out risolverà tutti i suoi problemi di salute mentale. Non è così…”
“Sono ancora impegnata a stare meglio. Ho avuto la fortuna e il privilegio di scoprire e adottare alcune strategie per alleviare il disagio mentale, ma ancora non bastano. Potrebbe farmi comodo fare psicoterapia.”
“La relazione fra umani etero e cisgender è solo una delle maniere di relazionarsi agli altri esseri umani. La molteplicità esiste, anche dove la scienza ancora non la vede o già non la vede più e continua a esistere anche nell’ipotesi in cui non la vedesse mai. (...) Siamo, sappiamo di esserci e, dal punto di vista politico, potrebbe essere persino irrilevante se è il nostro assetto ormonale/neuronale a determinare le maniere in cui ci sentiamo rispetto al genere o quelle in cui ci diamo piacere, quelle in cui proviamo attrazione per altri corpi e altri esseri viventi. Provocatoriamente mi viene da chiedere se non sia la nostra attitudine a modificare i nostri assetti ormonali e neuronali: forse è l’aprirsi alla coscienza di essere persone frocie che scava nuovi percorsi nelle nostre sinapsi e nei nostri cuori e modifica i nostri corpi, di dentro e di fuori. Se fosse una trasmutazione alchemica che amplia le possibili interazioni sociali? Se fosse magia queer?”
“Sto venendo allo scoperto come persona trans, la civiltà, questa società neoliberista ed eterocispatriarcale, già da un po’ ha iniziato a declassarmi, ad allontanarmi. Se non voglio essere espulsa, se voglio provare a rimanere nei confini, mi chiede di mimetizzarmi, camuffarmi, (...) non mostrarmi pacchiana, non far vedere che vengo da fuori. Eppure è riconoscendo la mia appartenenza a questi spazi altri, intrecciando relazioni con le persone che vi ho trovato, che ho potuto immaginare per me una possibilità di vita, di prosperità.”
“Sorridiamo ogni volta che per strada incrociamo un TIR, con su scritto “trans”. Sentiamo una bislacca e imperfetta parentela con quei mezzi. Anche noi veniamo da lontano e andiamo lontano, anche il nostro carico fa eccezione e sono eccezionali le esperienze che incameriamo. Ed è con eccezionale trasporto che ipotizziamo che il nostro posto sia nel viaggio, nel percorso. E nel conflitto”
Cecilia Arcidiacono fa la libraia. Dopo gli studi a Bologna ed erranze più e meno lunghe nel Mediterraneo approda a Napoli, dove nel 2018 dà vita alla libreria Tamu insieme a Fabiano Mari.