Nelle ultime settimane, molte polemiche hanno accolto l'ultimo film di Gianfranco Rosi, "Notturno", presentato all'ultima Mostra del Cinema di Venezia. Dal film, girato tra Iraq, Siria, Kurdistan e Libano, emerge un Medio Oriente simile a un magma indistinguibile di guerre, scontri, incomprensioni, confini più o meno labili. Luca Peretti, in questo breve commento, ci racconta alcune problematicità del film e si chiede, insieme a noi, chi e cosa autorizza un regista bianco e occidentale a ergersi a portavoce di alcune "verità storiche".
Le popolazioni locali, la loro capacità di autodeterminarsi e lottare non sono pervenuti. In fondo, la cifra del film sta tutta in questa breve didascalia iniziale: nel film di Rosi vediamo una serie di scene filmate in vari confini mediorientali, in cui gli abitanti non hanno voce (realmente o metaforicamente).
Il Medio Oriente che emerge da Notturno infatti è un magma indistinguibile di guerre, scontri, incomprensioni, confini più o meno labili. Non importano le specificità: vedendo il film, non si percepisce nessuna intenzione da parte del regista di distinguere, capire, analizzare. Lo stesso Rosi evidenzia come “l’idea iniziale era di girarlo tutto di notte dato che non conoscevo quei luoghi, non parlo la lingua: è come la notte che nasconde le cose e l’occhio ha bisogno di tempo per cominciare a distinguere i loro contorni nell’oscurità".
Notturno è un film estremamente problematico, così come lo è stato Fuocoammare. Nel suo lavoro precedente, Rosi infatti ci mostra una visione dei migranti come oggetti, senza voce o possibilità di esprimersi in alcun modo, rappresentati solo di notte (gli italiani, al contrario, hanno la luce dalla loro), mentre una molto presunta libertà artistica spinge il regista al voyeurismo estremo andando a filmare corpi senza vita nella stiva di un barcone.
Anche Notturno si distingue per una serie di orrori messi in scena, e spinge a chiedersi se ogni tanto la telecamera non andrebbe pudicamente spostata o spenta. Tra le altre cose, sentiamo i messaggi vocali di una ragazza rapita da Daesh (sempre chiamato ISIS nei sottotitoli italiani del film) riascoltati, in lacrime, dalla madre.
Non sappiamo altro di loro, se non che queste persone soffrono – ed è significativo notare come durante la conferenza stampa di presentazione alla Mostra del cinema di Venezia Rosi abbia fornito dettagli sulle loro vite, ma non li ha inclusi nel film. Vediamo soggetti deboli e subalterni come carcerati e malati psichiatrici nella loro brutale quotidianità; soggetti che difficilmente hanno firmato liberatorie o hanno autorizzato quest’operazione. Possiamo allora immaginare che Rosi abbia interagito con chi li controlla, con chi detiene il potere su questi corpi fragili. Di nuovo, vengono replicate strutture di sfruttamento e potere, come in Fuocoammare, dove Rosi sposa lo sguardo delle autorità – non a caso il film fu poi donato dal presidente del consiglio Matteo Renzi agli altri capi di stato europei.
Il lavoro con chi viene filmato sembra rimanere superficiale, come vediamo nell’episodio ricorrente nel film: nell’ospedale psichiatrico il regista usa i malati per mettere in scena una pièce teatrale che racconta tutti i mali del Medio Oriente, una rappresentazione accompagnata da immagini di archivio. Dittature, guerre, caos, tutto insieme, senza distinzioni, senza specifiche.
Difficilmente però lo scopo di questo film e di Fuocoammare può essere quello di documentare e raccontare cose che altrimenti non avremmo modo di vedere, di svelare mondi a noi sconosciuti – davvero queste sono le immagini di posti che non abbiamo visto in televisione, in altri film, in mille altri modi? Inoltre, ci chiediamo se davvero queste non possano essere filmate da chi vive il conflitto sulla propria pelle o da persone che hanno vissuto a contatto con queste realtà assorbendole e capendole? (sull’attraversamento dei confini mediorientali, si può ad esempio recuperare Midnight Traveler di Hassan Fazili, 2019).
Chi e cosa autorizza un uomo bianco occidentale che per sua stessa ammissione non capisce e conosce il contesto dove sta operando a farsi portavoce di questi soggetti subalterni? A raccontare queste “verità storiche”? E nel farlo, una domanda che è legittimo porsi è: girare queste scene mette in crisi il proprio sguardo o meno?
Il principio che Rosi porta avanti sembra quello per cui tutto si può mostrare, rappresentare, mettere in scena in nome dell’Arte, in nome di un’idea di cinema superiore al pudore, ai diritti personali, alle scelte e alla capacità di decidere del e sul rappresentato. Notturno infatti è un film bellissimo: tecnicamente impeccabile, con delle riprese mozzafiato, con uno sguardo esigente e particolare, con idee registiche notevoli – come la scelta magistrale, nella scena iniziale, di lasciare la camera ferma con il mondo che scorre, e i soldati che occupano lo spazio che questa gli concede, in uno stimolante dialogo tra spazio onscreen e offscreen.
Ma a cosa serve la bellezza? E di chi e cosa è al servizio in questo film?
Quella che emerge è quindi ancora un’idea di cinema il cui il regista, autore deus ex machina, è il decisore assoluto, l’unico che mantiene una certa agency. È lui a ordinare, catalogare, mettere a tema confini e identità; insomma, proprio come le potenze occidentali che per secoli si sono erte a giudizi dei destini dei popoli mediorientali, ordinando e catalogando le loro vite.
Luca Peretti è uno storico del cinema e delle culture italiane. Ha studiato e insegnato negli Stati Uniti e adesso è WIRL-COFUND Fellow all’Institute of Advanced Study (Università di Warwick). Ha scritto per varie riviste accademiche in italiano e inglese, e collabora con siti e giornali (tra gli altri, Lavoro Culturale, DinamoPress, Il Manifesto). Fa parte dell’associazione Storie in Movimento. Twitter: lucaperetti